Dunque, con Jaipur devo provare ad essere equanime. È la capitale del Rajasthan, lo stato indiano in cui si trovavano i regni dei principi Rajput (letteralmente “figli di re”), minuscoli e bellicosi staterelli indù che, arroccati fra le montagne o ritiratesi nel deserto più a ovest, quando non erano impegnati a combattersi fra di loro opposero una strenua resistenza all’invasione musulmana al tempo del sultanato di Dehli, dal XII secolo in avanti. Le gesta dei principi Rajput sono anche alla base della prima letteratura autoctona in hindi, e sono dunque parte dell’orgoglio nazionale indù in opposizione ai musulmani. Per cui bravi, eh, ci mancherebbe.
Va però detto che fu proprio la loro frammentazione a consentire l’invasione musulmana, e che poi, quando arrivarono i Moghul (XVI secolo), che nei loro confronti cambiarono politica, passando dal tentativo di repressione all’attrazione nella propria sfera d’influenza tramite matrimoni dinastici e conferimento di importanti incarichi militari, diventarono in definitiva dei buoni vassalli. Lo restarono anche all’arrivo degli inglesi, e fu solo con la creazione dell’India moderna che furono definitivamente ridimensionati. Insomma stiamo parlando di staterelli nobiliari, dei veri e propri feudi, governati da reucci passati alla storia coll’altisonante nome di “maragià”, che per cinquecento anni, liberi dal rischio di repressione ed anzi perfettamente integrati nel sistema, vissero pacifici a casa loro conducendo una vita da nobili debosciati (scusate la franchezza) in cambio di una fedeltà militare al nemico invasore e colonialista che gli permetteva, giusto per salvare la faccia, di restare fedeli ai propri ideali cavallereschi. I poveri stronzi.
Va detto però che nei loro territori rimase intatto il tessuto induista, che non dovette subire direttamente l’impatto della dominazione musulmana, e dunque, in un certo senso, onore al merito.
Arrivato a Jaipur, questi due livelli di stratificazione storica si vedono subito. Se da una parte siamo accolti da fortificazioni decisamente antiche che hanno tutta l’aria di avere un autentico senso storico (ovvero: sono fortificazioni vere, anche poderose), le testimonianze degli ultimi cinquecento anni testimoniano più che altro delle eccentricità dei suoi regnanti da operetta.
Jaipur, la città rosa. Che bello, che pittoresco, che pacchia per i turisti. Peccato che questo rosa risalga solo al tardo ottocento, quando l’allora regnante decise di dipingere così l’intera città come segno di benvenuto nei confronti del principe ereditario inglese. Insomma, il risultato sarà pure suggestivo, ma il gesto è di una tamarraggine assoluta. Le mura poi, sono tali solo di facciata. Costruite nel ‘700, non sono altro che un muro merlato dritto e senza reale spessore, che avrebbe avuto un senso forse mille anni prima, ma che al tempo in cui fu costruito sarebbe venuto giù alla prima cannonata. A dare un’idea più chiara dell’aria che tira, basta considerare che è proprio la città ad essere relativamente nuova, fondata appunto nel ‘700 in posizione più agevole rispetto alla vecchia capitale, che era più arroccata fra i monti per esigenze difensive.
Si comincia comunque discretamente, con il Nahargarh, il Forte della Tigre, che è inserito nella rete di fortificazioni precedente (sono tre forti collegati da mura poderose, e anche da tunnel sotterranei) ma che è stato costruito, essenzialmente, come dimora estiva per il maragià e le sue 1500 mogli (non scherzo) quando in città faceva troppo caldo. Come dargli torto?
Si prosegue con il Jantar Mantar, l’osservatorio astronomico, pieno di giganteschi strumenti in muratura, che sa più che altro di parco a tema, di trastullo personale di un sovrano che evidentemente non aveva altro di più importante a cui pensare.
Il piatto forte è il palazzo del maragià, che tuttora vi risiede (sì, i maragià esistono ancora, ma ora sono giusto proprietari dei loro palazzi). Il City Palace, così si chiama, è all’insegna del lusso più sfrenato, pittoresco ma senza reale bellezza, sepolto com’è sotto una mole di artigianato di altissima qualità ma alla lunga estenuante. L’interno, trasformato in museo, propone un’esposizione di vestiti, armi e oggetti d’epoca, anche interessante se non fosse per il presupposto che della storia dinastica di questa minuscola città stato ce ne debba fregare qualcosa. Alla fine, l’impressione è stata un po’ quella che provai in un altro palazzo di un potente con più soldi che gusto, ovvero il castello di William Randolph Hearst nel bel mezzo della California.
La bizzarria principale è però l’Hava Mahal, il Palazzo dei venti, vero e proprio simbolo della città: un edificio che è in pratica un’unica enorme facciata, dietro la quale si nasconde un alveare di nicchie e nicchiette tutte con griglie traforate in pietra, costruito con l’unico scopo di permettere alle innumerevoli mogli e concubine del sovrano di spiare non viste la vita all’esterno e le sfilate reali.
Una delusione, dunque? Non proprio, perché se il lato pittoresco dei maragià mi ha lasciato al più indifferente, il tessuto induista della città, a differenza di Dehli, è come dicevo prima pressoché integro. Si prenda questo splendido tempio dedicato a Govinda, ovvero Krishna, ovvero Vishnu (è una lunga storia, se ne riparlerà), in cui assisto, praticamente unico turista, a un rito che è, in definitiva, una semplice offerta al dio officiata dai bramini (il loro ruolo di sacerdoti alla fine si riduce a questo), ma che diventa rito collettivo per la gente che canta e batte le mani all’unisono. Bello e suggestivo. Ma soprattutto, autentico.
Va però detto che fu proprio la loro frammentazione a consentire l’invasione musulmana, e che poi, quando arrivarono i Moghul (XVI secolo), che nei loro confronti cambiarono politica, passando dal tentativo di repressione all’attrazione nella propria sfera d’influenza tramite matrimoni dinastici e conferimento di importanti incarichi militari, diventarono in definitiva dei buoni vassalli. Lo restarono anche all’arrivo degli inglesi, e fu solo con la creazione dell’India moderna che furono definitivamente ridimensionati. Insomma stiamo parlando di staterelli nobiliari, dei veri e propri feudi, governati da reucci passati alla storia coll’altisonante nome di “maragià”, che per cinquecento anni, liberi dal rischio di repressione ed anzi perfettamente integrati nel sistema, vissero pacifici a casa loro conducendo una vita da nobili debosciati (scusate la franchezza) in cambio di una fedeltà militare al nemico invasore e colonialista che gli permetteva, giusto per salvare la faccia, di restare fedeli ai propri ideali cavallereschi. I poveri stronzi.
Va detto però che nei loro territori rimase intatto il tessuto induista, che non dovette subire direttamente l’impatto della dominazione musulmana, e dunque, in un certo senso, onore al merito.
Arrivato a Jaipur, questi due livelli di stratificazione storica si vedono subito. Se da una parte siamo accolti da fortificazioni decisamente antiche che hanno tutta l’aria di avere un autentico senso storico (ovvero: sono fortificazioni vere, anche poderose), le testimonianze degli ultimi cinquecento anni testimoniano più che altro delle eccentricità dei suoi regnanti da operetta.
Jaipur, la città rosa. Che bello, che pittoresco, che pacchia per i turisti. Peccato che questo rosa risalga solo al tardo ottocento, quando l’allora regnante decise di dipingere così l’intera città come segno di benvenuto nei confronti del principe ereditario inglese. Insomma, il risultato sarà pure suggestivo, ma il gesto è di una tamarraggine assoluta. Le mura poi, sono tali solo di facciata. Costruite nel ‘700, non sono altro che un muro merlato dritto e senza reale spessore, che avrebbe avuto un senso forse mille anni prima, ma che al tempo in cui fu costruito sarebbe venuto giù alla prima cannonata. A dare un’idea più chiara dell’aria che tira, basta considerare che è proprio la città ad essere relativamente nuova, fondata appunto nel ‘700 in posizione più agevole rispetto alla vecchia capitale, che era più arroccata fra i monti per esigenze difensive.
Si comincia comunque discretamente, con il Nahargarh, il Forte della Tigre, che è inserito nella rete di fortificazioni precedente (sono tre forti collegati da mura poderose, e anche da tunnel sotterranei) ma che è stato costruito, essenzialmente, come dimora estiva per il maragià e le sue 1500 mogli (non scherzo) quando in città faceva troppo caldo. Come dargli torto?
Si prosegue con il Jantar Mantar, l’osservatorio astronomico, pieno di giganteschi strumenti in muratura, che sa più che altro di parco a tema, di trastullo personale di un sovrano che evidentemente non aveva altro di più importante a cui pensare.
Il piatto forte è il palazzo del maragià, che tuttora vi risiede (sì, i maragià esistono ancora, ma ora sono giusto proprietari dei loro palazzi). Il City Palace, così si chiama, è all’insegna del lusso più sfrenato, pittoresco ma senza reale bellezza, sepolto com’è sotto una mole di artigianato di altissima qualità ma alla lunga estenuante. L’interno, trasformato in museo, propone un’esposizione di vestiti, armi e oggetti d’epoca, anche interessante se non fosse per il presupposto che della storia dinastica di questa minuscola città stato ce ne debba fregare qualcosa. Alla fine, l’impressione è stata un po’ quella che provai in un altro palazzo di un potente con più soldi che gusto, ovvero il castello di William Randolph Hearst nel bel mezzo della California.
La bizzarria principale è però l’Hava Mahal, il Palazzo dei venti, vero e proprio simbolo della città: un edificio che è in pratica un’unica enorme facciata, dietro la quale si nasconde un alveare di nicchie e nicchiette tutte con griglie traforate in pietra, costruito con l’unico scopo di permettere alle innumerevoli mogli e concubine del sovrano di spiare non viste la vita all’esterno e le sfilate reali.
Una delusione, dunque? Non proprio, perché se il lato pittoresco dei maragià mi ha lasciato al più indifferente, il tessuto induista della città, a differenza di Dehli, è come dicevo prima pressoché integro. Si prenda questo splendido tempio dedicato a Govinda, ovvero Krishna, ovvero Vishnu (è una lunga storia, se ne riparlerà), in cui assisto, praticamente unico turista, a un rito che è, in definitiva, una semplice offerta al dio officiata dai bramini (il loro ruolo di sacerdoti alla fine si riduce a questo), ma che diventa rito collettivo per la gente che canta e batte le mani all’unisono. Bello e suggestivo. Ma soprattutto, autentico.
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