giovedì 11 settembre 2014
giovedì 21 agosto 2014
Seul, giorno 10
Ultimo giorno, ultimo museo. È il Leeum, creato dalla
fondazione Samsung. Esatto, quella Samsung. Ed è l’ennesimo museo di grande
spessore che vedo qui. E per una volta, dopo la lamentela sulla disfatta dell’architettura
in quest’epoca di archistar, è proprio l’architettura la principale
protagonista. Abbastanza incospicuo dall'esterno, si rivela in tutto il suo
spessore all'interno. Essenzialmente, si tratta di due musei distinti integrati
in un unico edificio. Il primo, progettato da Mario Botta, raccoglie capolavori
di arte tradizionale coreana (ancora una volta spiccano le ceramiche Celadon)
ed è imperniato su una rotonda centrale che è insieme rigorosa e scenografica. La
scala a chiocciola richiama in qualche modo il Guggenheim, ma l’effetto è
decisamente diverso, meno organico e più geometrico. L’inserimento di un’opera
d’arte contemporanea, essenzialmente una stalattite pop che la percorre per
tutta l’altezza come una surreale decorazione natalizia, è per una volta
funzionale all'effetto complessivo.
Il secondo museo, progettato dal francese Jean Nouvel, è
invece più convenzionale, e ospita la collezione d’arte contemporanea, con un
po’ di bei nomi e qualche bella opera, di gente come Foutrier, Beuys, Twombly,
De Kooning ed altri. C’è anche una colomba in formalina di quell'abile
provocatore che è Damien Hirst, la prima sua opera vagamente interessante che
vedo.
Ai contenuti e all'architettura, si aggiungono, tanto per
cambiare, dei criteri museografici all'avanguardia. In definitiva, complimenti alla
Samsung: questo è proprio quel tipo di committenza privata culturalmente
avveduta di cui c’è bisogno. Ed è chiaro che dalle varie Fiat, Mediaset e
compagnia non c’è da aspettarsi niente di simile, giusto?
Nel pomeriggio tocca all'ultimo sito tutelato dall'UNESCO,
il santuario Jongmyo, dove sono sepolti i re della dinastia Joseon. Sobrio e solenne,
è un lunghissimo edificio con una camera dedicata ad ogni re. La solennità del
luogo è accentuata dal fatto che non è mai stato un luogo pubblico né è stato
concepito per esserlo. Solo il re e il suo seguito poteva accedere, quando, due
volte l’anno, si teneva il rituale in onore degli antenati, autentico perno
dell’etica confuciana. Il rituale si tiene tuttora, ed è tuttora vietato
calpestare lo speciale percorso che si suppone seguano gli spiriti.
E con questo, ciao ciao Corea.
Seul, giorno 9
Oggi giornata di musei. Il War Memorial of Korea racconta la
storia della Corea dal punto di vista della guerra, esperienza purtroppo
centrale per una piccola nazione schiacciata da vicini più forti, come Cina e
Giappone. Si comincia dall'antichità, con la nave-testuggine usata contro i
giapponesi a farla da padrone, ma la fetta principale e il senso profondo del
museo sta nella rievocazione della Guerra di Corea, una ferita ancora aperta
che si rimarginerà soltanto quando le due Coree si riunificheranno. Pur con
qualche inevitabile enfasi retorica, il museo racconta benissimo tutte le fasi
del conflitto, comprese quelle precedenti e successive. E lo fa con strumenti
museografici d’avanguardia: non solo reperti, non solo documenti, ma filmati,
diorami, ricostruzioni, installazioni, esperienze interattive. E si esce non
solo avendo capito qualcosa in più della storia e della psicologia di una
nazione, ma davvero ammirati per la perfezione dello strumento-museo messo in
campo, utilizzato anche a fini educativi e in senso proprio ideologici, visto
che è una tappa fondamentale per ogni studente coreano in gita scolastica.
Il National Museum of Korea è un altro museo gigantesco, che
racconta tutta l’arte coreana nei suoi cinque millenni di storia. E se
ovviamente si notano i caratteri di un’arte essenzialmente provinciale,
influenzata da Cina e Giappone, non mancano alcune significative eccellenze
autoctone, come la statuaria, col raffinatissimo Budda pensatore, o la ceramica
Celadon, di uno splendido verde acquamarino, che si è espressa in oggetti di
rara bellezza. A maggior ragione dopo aver visto i palazzi, se dovessi riassumere
in un colore questa esperienza coreana, il colore sarebbe il verde.
Seul giorno 8, e sull'architettura
Il palazzo reale Changdeokgung col suo Giardino Segreto,
patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, è una meraviglia. Vasto, sapientemente
asimmetrico, a tratti labirintico, pieno di padiglioncini e angoli suggestivi
nascosti nei recessi del bosco dietro il palazzo, è l’esempio migliore viso
finora di palazzo imperiale in stile che definirei giapponese, se non fosse con
questo fare un torto ai coreani e al fatto che in Giappone di palazzi così non
ce ne sono. Col sole dovrebbe essere meraviglioso, ma anche sotto una pioggerella
impalpabile e un cielo brumoso, il verde del tempio si fonde a perfezione con
l’atmosfera scura dei boschi, con effetti di rara suggestione.
Meno bello ma
ugualmente interessante il vicino palazzo Deoksugung, protagonista di un
autentico cortocircuito storico-artistico nel momento in cui accanto al
padiglione reale vedo un edificio in stile greco, costruito dai giapponesi durante
l’occupazione e progettato da un architetto britannico.
E poi Bukchon, angolo di Seoul rimasto fermo agli anni settanta
e preservato nel suo stato originale come memoria storica, con tutte le sue
meravigliose case in stile tradizionale. È come un villaggio chiuso nel cuore
di Seoul, e il contrasto lo rende infinitamente suggestivo.
Ora, il contrasto fra Bukchon e i palazzi Joseon, da una
parte, e la città moderna che li circonda, dall'altra, è eclatante. Seul è una
città gigantesca, ma al di là delle dimensioni è un tipico esempio di quella
cultura urbana che è diventata lo standard globale. In un’economia
capitalistica, in cui viene incentivata l’iniziativa privata di individui e
gruppi (le aziende), è probabilmente inevitabile che si arrivi a questo punto,
a un punto cioè in cui a una cultura architettonica elitaria si sostituisce una
cultura che non ha altri criteri che non l’imponenza fine a se stessa; o meglio,
tesa a testimoniare in forme comprensibili a tutti, e dunque ridotte al minimo
comune denominatore della dimensione intesa come misura quantitativa, il
successo economico della committenza. Nelle città contemporanee, devo
tristemente constatare la sostanziale sconfitta all'architettura. Certo, ci
sono e ci saranno sempre dei begli edifici, ma nel loro complesso le città
globali si assomigliano tutte e sono brutte nella migliore delle ipotesi,
inumane nelle peggiori. L’Europa e l’Italia in qualche modo resistono, ma solo
perché hanno centri storici che non permettono a questa architettura di mera
propaganda di fare quello che vuole.
Begli scorci
Intendiamoci, non sto affatto criticando
il capitalismo in quanto tale. Evviva la libertà e la libera iniziativa. È che
nella cultura di massa e nella comunicazione globale, che di quel capitalismo
sono espressione finale, un’arte elitaria come l’architettura non è più a suo
agio, con danni non tanto per una ristretta cerchia di amatori, ma per tutti.
Oriente e Occidente hanno sviluppato due diverse sensibilità di bello
architettonico, una più integrata con la natura, l’altra più propriamente
urbana. Ma entrambi i modelli sembrano in crisi, inutili e impraticabili nelle
megalopoli di oggi. E dunque che fare? Da una parte occorrerebbe cultura, una
committenza e un’architettura più avvedute. Dall'altra le istituzioni pubbliche
dovrebbero farsi carico anche della dimensione del bello, così negletta
dall'architettura prevalente, pedissequamente al servizio del sistema. E dovrebbero
ugualmente farsi carico della funzione del simbolo, che rischia tristemente di
sparire dall'orizzonte urbano. Non si tratta di opporsi alla modernità in nome
della conservazione, ma di spingere per nuova architettura che risponda a diversi
valori, etici ed estetici. L’architettura è forma e volume, ma soprattutto
spazio vitale. E la commensurabilità fra uomo e l’architettura in cui vive è un
valore che va al di là degli stili. Frank Lloyd Wright e tanti altri l’avevano
capito, ma oggi pare non importare più a nessuno.
Bella merda
Mentre rifletto su queste cose rientro in hotel, e come beffa
che si aggiunge al danno, becco in TV uno dei soliti documentari americani, di
quelli che se non spettacolarizzano il loro oggetto non sanno cosa fare nella
vita. Si parla, guarda caso, di mega costruzioni. E si sostiene che l’uomo ha
sempre aspirato alle grandi costruzioni (vero), e che ora possiamo farne di
ancora più grandi (vero), e che tutto ciò è meraviglioso come le magnifiche
sorti e progressive. Ma vaffanculo, va.
mercoledì 20 agosto 2014
Seul, giorno 7
È lunedì, e come accade in Italia è quasi tutto chiuso,
comprese le attrazioni turistiche. Una delle poche aperte è il Seoul Art
Center, gigantesco complesso dedicato alle arti situato nell'area meridionale
di questa sterminata città. L’arte è ormai globale, e non mi stupisco affatto
di trovare a Seul esposizioni dedicate a Munch o a una specie di summa
dell’arte moderna, dagli impressionisti fino ai contemporanei. Scelgo
quest’ultima, ed in effetti i nomi ci sono un po’ tutti, con qualche scelta
inusuale e opere non proprio famosissime. Tutto sommato interessante.
Più tardi Gino propone di uscire da Seul, ancora in
direzione sud. Ci dirigiamo in macchina verso un tempio buddista fuori città,
immerso in colline boscose che ricordano il paesaggio della nostra mediavalle, pur con alberi
e rumori diversi. Prima di arrivare ci fermiamo a mangiare in un ristorantino
rurale, in una vecchia casa tradizionale, tutta in legno con corte centrale.
Buono il cibo, ma soprattutto bella l’atmosfera, quasi da vecchio film.
Il tempio è molto suggestivo. Non ha la grandeur dei templi
urbani (che qui non ho ancora visto, mentre è pieno di chiese ovunque) che ho
visto in Giappone, non è un’attrazione turistica, ma un vero luogo di
raccoglimento in cui si viene a pregare. Il tempio, composto da un edificio
principale circondato da tempietti minori, è sovrastato da un’enorme statua di
Budda disteso, tutta fatta di sassi colorati. I colori del tempio, rosso, verde
e blu, insieme a quelli squillanti delle lanterne, si fondono alla perfezione
col verde dei monti e il grigio plumbeo del cielo piovigginoso. È fresco,
l’atmosfera è silenziosa e raccolta e si sta molto bene.
Di rientro a Seul, passiamo finalmente da Gangnam, la parte
più nuova e luccicante, tutta grattacieli ultramoderni, schermi giganti, centri
commerciali enormi, auto di lusso, marchi alla moda. È il quartiere consacrato
su scala mondiale da quel ciccione insopportabile di Psy, che con la sua
Gangnam Style ha bonariamente preso in giro, ma in realtà celebrato, la vita
superficiale di questa Seul edonista.
Seul, giorno 6
Primo vero giorno a Seul, che in realtà si pronuncia Soul,
come anima. Gino, che si dimostra ogni giorno sempre più amichevole e
disponibile, si offre di portarci in giro, me e Anna. Dopo esserci incontrati
con qualche difficoltà in una gigantesca stazione metro, ci dirigiamo verso il
Gyeongbokgung, il principale palazzo reale della dinastia Joseon, che ha
regnato in Corea per più di 500 anni. L’enorme viale antistante, dominato dalla
statua dorata di Re Sejong, inventore dell’alfabeto coreano, è dove ieri il
Papa ha radunato una folla oceanica, e infatti si vedono ancora bandiere e
striscioni, nonché qualche turista con indosso una buffa t-shirt col faccione
di Francesco.
Il palazzo è parzialmente preservato, ed è in corso una campagna
di ricostruzione per reintegrare gli edifici mancanti. A differenza del
Giappone, dove ogni edificio storico è bene o male ancora in utilizzo, il
Gyeongbokgung è trattato a tutti gli effetti come un “bene culturale”, ed
infatti è meta di frotte di turisti. Il palazzo è sobrio ed elegante, senza
fronzoli, in perfetto accordo coi valori di una dinastia confuciana. C’è un
tour in inglese gratuito, tenuto da una simpatica signora in abiti
tradizionali, che ci racconta della dinastia Joseon e di re Sejong in modo tale
da rendere impossibile il non trovarli simpatici. Quando arriva a raccontare la
fine della dinastia, con i giapponesi che invadono la Corea e uccidono
l’imperatrice, si tocca di nuovo con mano quanto tesi siano ancora i rapporti
fra i due paesi su quanto accaduto in passato.
Quelli lassù sono i protagonisti di Viaggio in Occidente, con in testa il bonzo Sanzong
e subito dietro Songoku
Sul retro del palazzo c’è la Blue House, sede del locale
Primo Ministro. E in virtù della presenza del Papa, anche qui è tutto uno
sventolare di bandiere bianche e gialle.
Dopo il pranzo in un ennesimo, delizioso ristorantino, ci dirigiamo
verso Insa-dong, quartiere commerciale pittoresco e caratteristico, sede di innumerevoli
negozi tradizionali che mandano Anna letteralmente in tilt. Il pomeriggio passa
veloce: un saluto ad Anna, che l’indomani ha l’aereo, e via di nuovo in hotel.
martedì 19 agosto 2014
Corea, giorno 5
La fine del festival coincide con una visita all'archivio
del museo del Manhwa, una specie di bunker sotterraneo a cui si accede
attraverso misure di sicurezza degne di una banca. Dentro la responsabile, una
splendida ragazza che parla un inglese perfetto, ci illustra il lavoro che
viene condotto lì. Reprimo un moto d’invidia, e alla fine lei mi spiega in una
semplice frase i motivi di un supporto istituzionale che per me ha del
miracoloso: “siccome qui in Corea non abbiamo risorse naturali, abbiamo deciso
di investire in contenuti”. Il che vuol dire industria culturale e istruzione,
che ne è alla base. Semplice e disarmante.
È ora di muovere verso Seul, e mi accompagna Gino, assieme
ad Anna Voronkova di Kommissia, che rivedo volentieri a qualche anno di
distanza dal primo incontro a Mosca. Ci sistemiamo nei rispettivi hotel, poi
Gino si offre di portarci in giro. Sembra una barzelletta: ci sono un italiano,
una russa e un coreano a spasso per Seul. Hilarity ensues.
Una prima rapida occhiata a Seul e alla fauna locale
Dopo un breve giro nei dintorni del mio hotel, caratterizzato
dalla presenza di un prestigioso campus femminile che influenza abbondantemente
la fauna locale, approfittiamo della macchina di Gino per riuscire da Seul,
paralizzata nella sua parte centrale dalla presenza del Papa, e dirigerci a
nord, nella zona demilitarizzata al confine con la Corea del Nord. È il famoso
38esimo parallelo, teatro della guerra di Corea (quella di MASH, e magari fosse
stata così divertente) e ora confine con quello che probabilmente è lo stato
più tragicamente paradossale del XXI secolo. Pagando un biglietto piuttosto
salato è possibile penetrare più a fondo nella DMZ, sotto il controllo dei
militari, e visitare anche alcuni dei tunnel che la Corea del Nord aveva
provato a scavare per invadere il sud. Ma a me basta essere arrivato qui, in questo
luogo trasformato in memoriale. C’è una locomotiva sventrata rimasta ferma sui
binari per più di 50 anni, divenuta simbolo della separazione fra le due Coree.
C’è il monumento ai caduti, un museo e l’immancabile negozio di souvenir. C’è
un grande prato in cui la gente viene per fare picnic e far volare aquiloni, o
dove si tengono concerti per la pace, come quello in programma oggi. E c’è un
osservatorio, una struttura sopraelevata con dei binocoli, attraverso i quali
puoi seguire la vecchia ferrovia, oltre il ponte sul fiume ormai distrutto, che
si perde in una gola in fondo alla quale si intravedono le prime alture della Corea
del Nord. E insomma, come per stelle e galassie attraverso un telescopio, pur
se da lontano posso dire di aver visto dal vivo la Corea del Nord. E fa
un’impressione decisamente strana.
Laggiù in fondo c'è la Corea del Nord
lunedì 18 agosto 2014
Corea, giorno 4
Oggi è la giornata clou della mia presenza qui, almeno dal
punto di vista istituzionale. Prima c’è una specie di conferenza con interventi
sul diritto d’autore, poi comincia la parte che mi riguarda, con la
presentazione delle varie esperienze internazionali. Sembrava una riunione
dell’ONU, con le bandierine delle nazioni sul tavolo, ogni relatore col suo traduttore
personale, i saluti istituzionali all'inizio. Con la mia presentazione segno un
facile goal a porta vuota.
Accanto a me, Axel Alonso, Editor-in-chief della Marvel
Dopo aver salvato il mondo, il gotha del fumetto mondiale si
sposta soddisfatto a pranzo, in uno strepitoso ristorantino lì vicino. La
cucina coreana si conferma eccellente, meno raffinata ma più vigorosa rispetto
a quella giapponese.
L’ultimo atto istituzionale è una visita al municipio per il
saluto al sindaco, che è anche l’occasione per assistere alla mostra che tanto
scandalo ha suscitato ad Angouleme, incentrata sulle donne costrette a
“confortare” i soldati durante l’occupazione giapponese. Nella hall del
municipio ci sono ci sono altre cose che mai mi aspetterei di trovare in un
municipio dalle nostre parti, come un Comics cafè ed un robottone in bella
mostra, riproduzione gigante di un modellino di carta prodotto sul territorio
come giocattolo per bambini.
Poi comincia l’intrattenimento per gli ospiti, con breve
tour a Seul. Si comincia con il 63 City, un grattacielo completamente dorato,
l’unico fra quelli che ho visto finora dotato di una qualche personalità. In
cima c’è una galleria d’arte con annesso osservatorio panoramico, con gran
bella vista su tutta la città.
Poi si va a cena, neanche a tre ore dalla fine
del pranzo. Il ristorante è alla base della torre, ed è specializzato nel
piatto giapponese noto come Shabu-shabu, sottili fettine di tenerissima carne
di manzo cotte un po’ alla volta in una scodella di pietra posta su una piastra
elettrica integrata nel tavolino. Squisito.
È poi la volta della crociera sul fiume Han, esperienza
piacevole più per il fresco e la conversazione che non per la vista, invero non
memorabile. Tant’è che, per vivacizzare la cosa, i perfidi coreani si inventano
prima uno spettacolino a base di getti d’acqua sparati da un ponte, con tanto
di doccia finale, poi l’apparizione a sorpresa di un tizio che vola con
zainetto a propulsione jet, neanche fosse Tony Stark. La cosa più divertente è
stato passare sotto il ponte in cui ha il suo rifugio il mostro di The Host, ed
in effetti appare chiaro perché possa venire in mente di girare un film di
mostri proprio lì.
A un certo punto si sente il rumore di svariati elicotteri, che
passano sopra di noi scortandone uno più grande. Pare fosse il Papa, di ritorno a Seul dopo la giornata asiatica della gioventù,
tenutosi in un’altra città più a sud.
Ma la vera attrattiva della giornata risulta Lim detta
Chiara (don’t ask), una volontaria buffissima che, oltre a Gino, mi affibbiano
per tutta la giornata. Che sarebbe anche carina, quando non impegnata a fare queste
facce qui:
Scherzo, Chiara, sei uno spasso.
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