E dunque, l’India. Perché l’India? Per un po’ di motivi, non tutti ovvi.
L’india si porta dietro ancora oggi gli strascichi di innumerevoli stratificazioni di immaginario. C’è l’India esotica, quella di Kipling e poi, indirettamente, di Salgari, il cui mito si è fatto strada in occidente sulla scorta della dominazione inglese: tigri, elefanti, giungla, marajà dediti al lusso sfrenato, perle di Labuan (sì, la Malesia tecnicamente non è India, ma l’immagine è quella), pirati, compagnia delle Indie e chi più ne ha più ne metta. C’è l’India spiritual-fricchettona che ha spopolato a partire dagli anni sessanta, da quando, almeno, i Beatles se ne vennero qui da non so quale santone: lo yoga, l’ayurveda, il misticismo hippie, la retorica terzomondista, tutta quella roba lì. C’è l’india, appunto, dei santi e dei santoni, quella di Gandhi, di Madre Teresa di Calcutta, e giù fino a Sai Baba. C’è l’India di Bollywood, la cui conoscenza, prima limitata agli appassionati di cinema, si è diffusa in strati più ampi dai tempi di Internet. C’è l’India più recente, quella di ingegneri e informatici che proliferano al pari delle vacche sacre, la cui iconografia è stata fissata nell’immaginario collettivo dal Raj di Big Bang Theory.
Per quanto tutte chiavi interessanti, nessuna di queste è la motivazione primaria che mi spinge a venire qui. Arrivo in India non sulla base di queste suggestioni dell’immaginario, ma con una cognizione un po’ più affinata, in termini sia storici che culturali.
So che qui, calati di volta in volta su un’irredimibile frantumazione politica, ci sono stati un po’ tutti, dai Kushan ad Alessandro ai Moghul, fino ai già citati inglesi. So che è la patria di due religioni di portata universale: una, il buddismo, che dall’India è sparita per trovare fortuna altrove, l’altra, l’induismo, tuttora maggioritaria e fieramente politeista, e che per di più è alla base di molti concetti assimilati dalle altre religioni “orientali”: il ciclo infinito di reincarnazioni, il karma, il dharma inteso come “legge universale”. Per non parlare poi di altre religioni meno influenti sul resto del mondo come jainismo e sikhismo, e dell’Islam, portato da invasori che hanno lasciato gloriose tracce di sé e che tuttora è praticato da una quota importante di indiani, senza contare quelli che all’epoca sono fuggiti in Pakistan.
Sono vagamente a conoscenza delle principali divinità e di un po’ di mitologia. La trimurti, Brama il creatore, Vishnu il preservatore e Shiva il distruttore, e di come ognuno la veda a suo modo su quale fra queste (o anche fra altre) sia la divinità suprema. Soprattutto, ho letto il Mahabarata (in realtà lo sto ancora finendo), il poema epico-religioso induista per eccellenza nonché la più lunga opera letteraria esistente, qualcosa come Iliade e Odissea combinate e moltiplicate per dieci. E questo, obbiettivamente, mi pone in un club piuttosto ristretto. È tramite il Mahabarata che alcuni aspetti dell’induismo e della società indiana (da quel che capisco, anche di quella contemporanea) mi sono familiari: la divisione in caste, che impostano la società su un concetto di ordine cosmico: i Bramini, sacerdoti, asceti e santoni (obiettivo: studiare le scritture, i Veda, e puntare all’obiettivo finale, l’Emancipazione), gli Khsatriya, re e guerrieri (obiettivo: combattere i nemici, punire i malvagi, assicurare la giustizia), i Vaisya, mercanti e agricoltori (obiettivo: fare soldi; oggi li chiameremmo “imprenditori”), i Sudra, dediti al servizio della altre tre classi; le scritture, appunto i Veda, oggetto di profondissima riflessione spirituale tutta tesa a determinare la moralità di ogni azione umana; l’importanza degli antenati e dei figli nella concezione induista, in quanto tutti inseriti in una catena cosmica in cui i discendenti pregano per la salvezza dei defunti, e dunque i figli sono una sorta di investimento spirituale; di come comunque al termine del ciclo di reincarnazioni ci sia un paradiso, ed anzi diverse “regioni” del paradiso, che ognuno raggiunge in base ai suoi meriti e, sembra, non eternamente; l’importanza dei sacrifici, spesso di burro chiarificato, che passano attraverso Agni, il dio del fuoco; le Yuga, le diverse età del mondo; di come gli dei cazzeggiano e litigano amabilmente, magari senza le divagazioni erotiche degli dei greci; di come Krishna, ottavo avatar (incarnazione storica) di Vishnu, si poteva invece permettere, lui sì, di amoreggiare giovincello con le pastorelle Gopi, per poi sconfiggere mostri e demoni, combattere con Arjuna nel Mahabarata e rivelargli il Bhagavad Gita, riverito come una specie di vangelo induista; un altro po’ di dei assortiti, come Indra, dio della guerra e padre di Arjuna, Garuda, l’uccello divino, Ganesha, dio della ricchezza con la testa di elefante, Hanuman, il dio scimmia che nel Ramayana aiuta Rama a salvare Sita (che intanto canta il suo blues) ma che è anche quello di Shirow in Orion; le dee, Sarasvati, Parvati, Lakshmi, Kali; la dualità complementare fra maschile e femminile, da cui il tantrismo che è forse la religione più femminista che conosca; i chakra e la kundalini; i tirtha, ovvero i luoghi sacri; i demoni Asura e Rakshasa, le Apsara, danzatrici celesti; la penitenza e l’eremitaggio come pratica ascetica d’elezione per i Bramhana; i nostri fantastici eroi Pandava, figli di Pandu, protagonisti del Mahabarata: l’imbelle ma saggio (o imbelle proprio perché saggio) Yudishtira, il fortissimo Bhima, l’eroe per eccellenza Arjuna, gli “altri due”, Nakula e Sahadeva, tutti e cinque allegramente sposati alla stessa moglie; gli innumerevoli re di leggende, aneddoti e racconti, che da soli raccontano la frammentazione politica dell’India meglio di qualunque libro di storia; i combattimenti incentrati sui carri, i “colpi speciali” degni di Dragonball; eccetera eccetera.
E in tutto questo, che da solo basta e avanza a giustificare un omaggio, una cultura che invece dal punto di vista artistico non mi attira per niente, preda com’è (o come mi sembra, ma sono pronto a ricredermi) di un barocchismo e di un “horror vacui” che non sono nelle mie corde, disinteressata all’architettura considerata arte minore, orgogliosamente popolare in tutte le sue manifestazioni, per cui anche le classi agiate, invece di competere in raffinatezza, hanno finito per dare massima importanza all’ostentazione del lusso (forse perché, da buoni Kshatriya, la cultura non era roba per i re induisti, ma era riservata ai Bramini, ed era cultura religiosa, non civile). Anche il Mahabarata, con tutto il suo interesse, non è “bello” secondo alcuno dei criteri estetici occidentali, talmente lungo e prolisso da apparire a volte informe, e da essere per lunghi tratti insostenibile, come per esempio il pantano da cui sto uscendo solo adesso, il lunghissimo libro (il più lungo dei 18 da cui è costituito l’intero poema, ed è tutto dire) in cui il saggio Bhisma, alla fine della mega battaglia totale globale, giace su un letto di frecce e dà interminabili consigli di moralità e politica a Yudishtira.
In questo senso è enorme la differenza con l’Islam, che alla fine ha declinato un unico concetto (l’unicità e trascendenza assoluta di Dio) in forme di estrema raffinatezza, prima di impantanarsi per mancanza di spunti ulteriori.
In definitiva, tutto questo preambolo per dire che mi sento un po’ in colpa per essere venuto qui (lo ammetto) in primo luogo per vedere i capolavori Moghul, estremo finale di quel viaggio a ritroso nella cultura architettonica islamica (in realtà persiana, cui l’islam ha infuso slancio mistico) di cui sono grande ammiratore. E tuttavia spero che quel po’ che ho approfondito della cultura indiana serva ad espiare questo peccato. Lo scoprirò presto: se mi verrà il “cagotto di Dehli”, lo spauracchio sanitario di questo viaggio secondo tutte le guide, saprò che sarà per volontà degli dei, e che sarà per espiare del tutto.
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