lunedì 21 dicembre 2015

Agra, ultimo giorno

L’ultimo giorno ad Agra si apre con un gioiello quasi inaspettato, la tomba di Itimad-ud-Daulah, persiano, visir dell’imperatore Jahangir.


In foto non mi aveva colpito particolarmente, ma dal vivo la tomba si rivela uno dei più squisiti risultati dell’arte Moghul, al livello del Taj Mahal se non addirittura oltre. Le piccole dimensioni ne aumentano l’incanto, ed è il primo mausoleo che avrebbe perfettamente senso anche come villa residenziale. Tutte le pareti sono decorate con intarsi raffinatissimi, e laddove in altri contesti il profluvio di decorazione sarebbe risultato stucchevole, qui conferisce ai muri la levità del ricamo. È un effetto non solo decorativo ma propriamente architettonico, ed infatti la distanza giusta da cui osservare l’edificio rimane l’usuale campo medio, che permette alla decorazione di smaterializzare i muri senza diventare lei stessa il centro dell’attenzione. Non mi era mai capitato di trovare una così assoluta consapevolezza nell’uso della decorazione in architettura, e tanto basta a inserire l’edificio in una mia personalissima top ten.






La raffinatezza di questo edificio, come anche del Taj Mahal, rende giustizia al motto che ho trovato inciso in una lapide esplicativa, e cioè che i Moghul sono passati da titani (si pensi alla severità della tomba di Humayun) a cesellatori. Ma una tale combinazione di raffinatezza e naturalezza segna un culmine magico e irripetibile, necessariamente brevissimo, oltre il quale si scivola inevitabilmente nella stanca ripetizione e nel manierismo. Ed infatti, i Moghul non furono più capaci di raggiungere questi livelli, e lo stesso può dirsi per la cultura artistica islamica nel suo complesso (Sinan, in Turchia, operava circa 50-70 anni prima), che entra di lì a poco in una fase di stagnazione di cui ancora non si vede la fine.

La giornata si chiude a Sikandra, un sobborgo a nord di Agra, con il doveroso omaggio al personaggio simbolo del periodo Moghul, l’imperatore Akbar il Grande che qui volle il suo mausoleo. Amante della cultura e tollerante ai limiti del sincretismo, come già detto parlando della sua capitale Fathepur Sikri, questo personaggio complesso e affascinante incarna valori di cui ancora oggi ci sarebbe disperatamente bisogno. A riprova della sua personalità fuori dagli schemi, anche il suo mausoleo è diverso da tutti gli altri. È ovviamente enorme e monumentale, come doveroso per un imperatore di tale potenza. Ma a parte i portali, non ha praticamente nulla del linguaggio architettonico tipico degli altri mausolei Moghul: niente cupola, niente minareti (presenti solo nel portale d’ingresso), niente camera mortuaria sotterranea (o meglio: c’è, ma è fasulla), niente gioco fra pieni e vuoti, visto che i vuoti prevalgono nettamente. Si tratta di una specie di piramide a gradoni, ogni livello sostenuto da una selva di pilastri e abbellito unicamente da chatri disposti simmetricamente. Sembra quasi lo scheletro di un edificio, come se gli mancasse il paramento esterno. C’è sicuramente una simbologia elaborata dietro a un edificio così singolare: sicuramente un desiderio di moto ascensionale, ma a parte questo chissà. Forse una dichiarazione d’intenti, un invito a guardare alla sostanza al di là della forma? Non lo so, ma sarebbe bello.




domenica 20 dicembre 2015

Fatehpur Sikri, la città di Akbar

Oggi, visita a Fatehpur Sikri, la capitale che Akbar il Grande, l’imperatore Moghul che portò l’impero al suo apogeo, fece costruire a una quarantina di chilometri da Agra e che cadde però immediatamente in disuso alla sua morte. Era una cittadella vera e propria, con abitazioni, servizi, attività commerciali e edifici religiosi intorno al palazzo imperiale, che ne costituiva il perno. Il palazzo è perfettamente conservato, ed è, manco a dirlo, fantasmagorico. E al di là dell'imponenza, qualche padiglione dal punto di vista architettonico non è proprio niente male.
Ma al di là di tutto, l’interesse della visita è riflettere sulla complessa personalità dell’imperatore, amante della cultura e patrocinatore delle arti, devoto musulmano ma affascinato dal mondo induista al punto da arrivare a teorizzare una sua personale “religione di Dio” che provasse a metterle insieme. Di questa commistione rimane traccia nel palazzo, che ha spazio anche per un tempio induista nell’harem e per decorazioni, in gran parte perse ma alcune ancora leggibili, ispirate al Ramayana. Ancora una volta in questo viaggio, uno spunto all’insegna di sincretismo e tolleranza. Il primo magari è un’utopia, ma della seconda sa Iddio se c’è bisogno.








sabato 19 dicembre 2015

C'è Dio e Dio, parte 2

Allora, vogliamo dare un’occhiata a qualcuno di questi dei induisti?
Cominciamo dalla trimurti: Brhama, Vishnu e Shiva, il creatore, il preservatore e il distruttore.


Del povero Brhama, diciamolo subito, non frega niente a nessuno. Ha un solo tempio in tutta l’India, a un’oretta da Jaipur. Ha quattro facce e una l’ha persa bruciatagli da Shiva (fail).

Vishnu e Shiva invece sono infinitamente più popolari, le vere superstar dell’induismo.


Shiva è una specie di Dioniso, un dio che vive di slanci e eccessi. Da una parte è il più grande degli asceti (l’ascetismo è slancio interiore), dall’altra va in giro nudo a insidiare le donne. È venerato anche tramite il lingam, il simbolo fallico, il che è tutto dire. È anche un notevole ballerino, noto per la sua danza cosmica. Ha tagliato la testa al figlio e poi gliene ha riattaccata una da elefante. È il distruttore del mondo ma farebbe qualunque cosa per i suoi devoti, per cui la gente lo ama. Ha un tridente, capelli scarmigliati, serpenti intorno al collo. Viaggia su un bue. Di sicuro sembra il tipo da invitare alle feste.


Vishnu, il preservatore, è invece un tipo più ammodino. È un protettore di natura, per cui quando si profila un pericolo per l’ordine cosmico interviene con una delle sue incarnazioni, o avatar. Quelle canoniche sono dieci, che spaziano da una tartaruga gigante usata per frullare l’oceano (don’t ask) all’eroe Krishna fino a Budda. Se fosse originario dell’India, anche Gesù sarebbe stato un perfetto avatar di Vishnu. Ha una corona in testa, e in mano porta un anello di fuoco e una conchiglia. Viaggia su un uccello gigante. Rispetto a Shiva, sembra più il tipo da sposare.


Poi c’è appunto Krishna. Si potrebbe dire che è un avatar di Vishnu e chiuderla lì, se non che c’è chi pensa che sia invece Vishnu ad essere un avatar di Krishna. Allevato da pastori, passa l’infanzia a combinare marachelle e una giovinezza da debosciato ad amoreggiare un branco di pastorelle, prima fra tutte la favorita Radha. Poi di colpo scopre la sua vocazione di eroe guerriero: prima sconfigge un demone, poi aiuta i cinque fratelli Pandava a sconfiggere i loro cugini, gli usurpatori Kaurava. È scuro di pelle e abilissimo con l’arco.


Ganesha è il povero figlio di Shiva con la testa da elefante. È il dio del successo, per cui è molto invocato e la sua effige è su tutte le porte. Viaggia su un topo.

Basta? Ce ne sono innumerevoli altri, e le dee, poi, meriterebbero un post tutto loro.

E la cosa davvero divertente di questi personaggi che sembrano usciti da un cartone animato, è che ogni sfumatura, attributo o episodio mitico cela un profondo significato simbolico, con una stratificazione filosofica e teologica di millenni. Massimo rispetto.

Agra: il Taj Mahal


E alla fine, oggi, 19 dicembre 2015, ho visto il Taj Mahal. Ora, parliamoci chiaro: non sono mai stato interessato alla retorica delle “meraviglie del mondo”, status al quale il Taj Mahal è assurto relativamente di recente, dopo secoli di oblio di massa. Dovessi dire quando ne ho sentito parlare per la prima volta direi una bugia, ma è di sicuro una new entry in quel club esclusivo di monumenti iconici in cui le piramidi, la muraglia cinese e il nostro Colosseo sono membri da sempre. A vedere il Taj Mahal c’erano più turisti di quanti ne abbia visti finora in India, il che vuole appunto dire che la sua notorietà ormai è tale da renderlo meta obbligatoria per una larga fascia di persone (a cui non faccio certo una colpa, sia chiaro) non particolarmente interessate o competenti in materia ma attratte semplicemente dal suo status. Alla fine è sempre la solita storia dell’ “aura” di un’opera d’arte come teorizzata da Benjamin, ripresa, amplificata e pompata all’inverosimile dai media. L’opera d’arte, dunque, come icona di massa. E va comunque detto che questo approccio è tutt’altro che in contrapposizione a quello “da intenditori” di una supposta aristocrazia del gusto, visto che, almeno in un caso come questo, scopo di un monumento dinastico del genere era proprio quello di impressionare anche e soprattutto chi non avesse gli strumenti culturali per decifrarne il linguaggio in modo più sofisticato. Un discorso un po’ diverso per, dire, varrebbe per la Gioconda, ma ci porterebbe lontano.
Tutto questo per dire che, indipendentemente dal fatto che si fosse lì per farsi un selfie di fronte all’icona, o che si arrivasse come me un po’ più preparati, il risultato finale non cambia di una virgola: comunque la si rigiri, il Taj Mahal è un fottuto capolavoro.



Le proporzioni perfette, la raffinatezza e semplicità dell’ornato (alla fine si tratta solo di semplici “specchiature” in marmo, di qualche motivo geometrico e floreale e delle usuali scritture coraniche), il modo studiatissimo e consapevole, e tuttavia magicamente naturale, con cui gioca con i colori, con la luce, con i materiali (le proprietà traslucide del marmo, i riflessi delle gemme etc.), l’inquadramento prospettico nel giardino, col monumento retrocesso sul fondo rispetto al modello a pianta centrale della tomba di Humayun, e inquadrato scenograficamente dall’ariosità del fiume alle spalle, dai quattro minareti angolari e da possenti edifici ai lati (una moschea e un’esternamente identica residenza per ospiti) con cui contrasta cromaticamente e simbolicamente, tutto contribuisce a rendere l’impatto col Taj Mahal qualcosa di davvero unico.
In una giornata di sole, anche se foschiosa, il bianco del mausoleo dell’imperatore Shah Jahan e della sua amatissima moglie Mumtaz Mahal è abbacinante, e dopo un po’ gli occhiali da sole sono indispensabili. Peccato non poter vedere le sfumature rosate e aranciate che esibisce all’alba e al tramonto, e tanto meno l’effetto di lucentezza soprannaturale sotto il plenilunio, ma quel che ho visto basta e avanza.
Dopo di questo, l’Agra Fort, il Forte Rosso di Agra, anch’esso iscritto nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco e versione se possibile ancor più magnificente di quello di Dehli, finisce quasi per restare in secondo piano.

venerdì 18 dicembre 2015

Scimmie e pozzi

Oggi trasferimento da Jaipur ad Agra, con un paio di tappe significative. In primo luogo il Galtaji, una vasta struttura templare con numerosi templi e due vasche per le abluzioni rituali, noto soprattutto per l’incredibile numero di scimmie che ci vive. Si parla di alcune centinaia, nutrite dai pellegrini e dunque stabilitesi lì permanentemente. Il tempio si trova in una gola e si sviluppa su più livelli. Salgo fino in cima, dove un bramino (in cambio di una piccola mancia, come da copione) mi spiega il rituale, mi fa pregare di fronte alla trimurti e ad Hanuman, mi applica il terzo occhio e mi mette un braccialetto portafortuna. Poi mi ritrovo fra le scimmie, che non avevo mai visto in così gran numero e così da vicino. Un cucciolo, curioso, mi tocca da dietro quando mi giro per andarmene.




L’altra tappa è Abhaneri, dove c’è il Chand Baoli, un incredibile pozzo/palazzo tipico delle zone aride dell’India per raccogliere la poca acqua piovana. È profondo più di 20 metri ed è strutturato in livelli, collegati da un numero incredibile di gradini. Davvero impressionante.



Edit: e poi salta fuori che questo pozzo è servito come prigione nel terzo Batman di Nolan...

Jaipur

Dunque, con Jaipur devo provare ad essere equanime. È la capitale del Rajasthan, lo stato indiano in cui si trovavano i regni dei principi Rajput (letteralmente “figli di re”), minuscoli e bellicosi staterelli indù che, arroccati fra le montagne o ritiratesi nel deserto più a ovest, quando non erano impegnati a combattersi fra di loro opposero una strenua resistenza all’invasione musulmana al tempo del sultanato di Dehli, dal XII secolo in avanti. Le gesta dei principi Rajput sono anche alla base della prima letteratura autoctona in hindi, e sono dunque parte dell’orgoglio nazionale indù in opposizione ai musulmani. Per cui bravi, eh, ci mancherebbe.
Va però detto che fu proprio la loro frammentazione a consentire l’invasione musulmana, e che poi, quando arrivarono i Moghul (XVI secolo), che nei loro confronti cambiarono politica, passando dal tentativo di repressione all’attrazione nella propria sfera d’influenza tramite matrimoni dinastici e conferimento di importanti incarichi militari, diventarono in definitiva dei buoni vassalli. Lo restarono anche all’arrivo degli inglesi, e fu solo con la creazione dell’India moderna che furono definitivamente ridimensionati. Insomma stiamo parlando di staterelli nobiliari, dei veri e propri feudi, governati da reucci passati alla storia coll’altisonante nome di “maragià”, che per cinquecento anni, liberi dal rischio di repressione ed anzi perfettamente integrati nel sistema, vissero pacifici a casa loro conducendo una vita da nobili debosciati (scusate la franchezza) in cambio di una fedeltà militare al nemico invasore e colonialista che gli permetteva, giusto per salvare la faccia, di restare fedeli ai propri ideali cavallereschi. I poveri stronzi.
Va detto però che nei loro territori rimase intatto il tessuto induista, che non dovette subire direttamente l’impatto della dominazione musulmana, e dunque, in un certo senso, onore al merito.


Arrivato a Jaipur, questi due livelli di stratificazione storica si vedono subito. Se da una parte siamo accolti da fortificazioni decisamente antiche che hanno tutta l’aria di avere un autentico senso storico (ovvero: sono fortificazioni vere, anche poderose), le testimonianze degli ultimi cinquecento anni testimoniano più che altro delle eccentricità dei suoi regnanti da operetta.
Jaipur, la città rosa. Che bello, che pittoresco, che pacchia per i turisti. Peccato che questo rosa risalga solo al tardo ottocento, quando l’allora regnante decise di dipingere così l’intera città come segno di benvenuto nei confronti del principe ereditario inglese. Insomma, il risultato sarà pure suggestivo, ma il gesto è di una tamarraggine assoluta. Le mura poi, sono tali solo di facciata. Costruite nel ‘700, non sono altro che un muro merlato dritto e senza reale spessore, che avrebbe avuto un senso forse mille anni prima, ma che al tempo in cui fu costruito sarebbe venuto giù alla prima cannonata. A dare un’idea più chiara dell’aria che tira, basta considerare che è proprio la città ad essere relativamente nuova, fondata appunto nel ‘700 in posizione più agevole rispetto alla vecchia capitale, che era più arroccata fra i monti per esigenze difensive.

Si comincia comunque discretamente, con il Nahargarh, il Forte della Tigre, che è inserito nella rete di fortificazioni precedente (sono tre forti collegati da mura poderose, e anche da tunnel sotterranei) ma che è stato costruito, essenzialmente, come dimora estiva per il maragià e le sue 1500 mogli (non scherzo) quando in città faceva troppo caldo. Come dargli torto?






Si prosegue con il Jantar Mantar, l’osservatorio astronomico, pieno di giganteschi strumenti in muratura, che sa più che altro di parco a tema, di trastullo personale di un sovrano che evidentemente non aveva altro di più importante a cui pensare.




Il piatto forte è il palazzo del maragià, che tuttora vi risiede (sì, i maragià esistono ancora, ma ora sono giusto proprietari dei loro palazzi). Il City Palace, così si chiama, è all’insegna del lusso più sfrenato, pittoresco ma senza reale bellezza, sepolto com’è sotto una mole di artigianato di altissima qualità ma alla lunga estenuante. L’interno, trasformato in museo, propone un’esposizione di vestiti, armi e oggetti d’epoca, anche interessante se non fosse per il presupposto che della storia dinastica di questa minuscola città stato ce ne debba fregare qualcosa. Alla fine, l’impressione è stata un po’ quella che provai in un altro palazzo di un potente con più soldi che gusto, ovvero il castello di William Randolph Hearst nel bel mezzo della California.


La bizzarria principale è però l’Hava Mahal, il Palazzo dei venti, vero e proprio simbolo della città: un edificio che è in pratica un’unica enorme facciata, dietro la quale si nasconde un alveare di nicchie e nicchiette tutte con griglie traforate in pietra, costruito con l’unico scopo di permettere alle innumerevoli mogli e concubine del sovrano di spiare non viste la vita all’esterno e le sfilate reali.

Una delusione, dunque? Non proprio, perché se il lato pittoresco dei maragià mi ha lasciato al più indifferente, il tessuto induista della città, a differenza di Dehli, è come dicevo prima pressoché integro. Si prenda questo splendido tempio dedicato a Govinda, ovvero Krishna, ovvero Vishnu (è una lunga storia, se ne riparlerà), in cui assisto, praticamente unico turista, a un rito che è, in definitiva, una semplice offerta al dio officiata dai bramini (il loro ruolo di sacerdoti alla fine si riduce a questo), ma che diventa rito collettivo per la gente che canta e batte le mani all’unisono. Bello e suggestivo. Ma soprattutto, autentico.



giovedì 17 dicembre 2015

C'è Dio e Dio (forse)

Ho grande simpatia per gli dei induisti. Sorridono sempre, propongono una via d’accesso amichevole alla divinità, che non fa leva sulla paura né sul senso di colpa. In realtà, per quanto il loro background mitico sia complesso e stratificato, i primi ad essere consapevoli che quei personaggi e le loro storie sono solo miti sembrano proprio gli induisti. Considerato che lo status degli dei è sì infinitamente superiore a quello umano, ma che in definitiva anch’essi “esistono”, e dunque non si sono ancora liberati dalle catene dell’esistenza e dal ciclo delle continue rinascite (sempre che non si voglia considerare anche quella della reincarnazione una favola per bambini e risolvere così il problema una volta per tutte), diventa chiaro che si tratta in realtà di simboli, di vie diverse e tutte ugualmente valide verso un Buco Nero Metafisico intorno al quale tutti quanti orbitano, ci sia dentro un dio personale come Vishnu o Shiva (ma potrebbe anche essere Budda, Gesù o Allah) o un principio astratto come il Brahman, il Tao o il Nirvana (ma potrebbe anche essere un generico Grande Mistero dell’Essere). In definitiva, gli dei induisti sono solo dei mediatori. Con la differenza che, mentre altri mediatori presenti in altre fedi (nel Cristianesimo, ad esempio, penso alla Madonna, agli Angeli e ai Santi) rendono esplicita questa loro funzione richiamando continuamente l’attenzione verso il Buco Nero, questi non lo fanno. È come se dicessero: è ok se credi in me anche senza vedere il Buco Nero alle mie spalle, ed è ok se invece credi a un altro dio, ed è ancora ok se un tuo compagno crede ancora in un altro, perché comunque, in ogni caso, vi staremo trascinando tutti verso il Buco Nero, che ne siate consapevoli o meno. In questo senso, il politeismo induista ha in sé un germe di tolleranza. Poi, in quanto religione e dunque portatrice forte di identità, è benissimo capace di generare i suoi fanatismi e di provocare disastri (le caste, l’immolazione delle vedove, le faide con i Musulmani, eccetera). Ma la stessa cosa vale per il Cristianesimo, l’Islam e per qualunque altra fede che, a un certo punto, abbia posto la questione identitaria del “noi” (i giusti, i veri credenti, i “civilizzati” etc.) contrapposti a “loro” (i pagani, gli idolatri, gli eretici, i “selvaggi” etc.).
La natura mediatrice del politeismo induista mi sembra affine a quella dello shintoismo giapponese, con la differenza che lì siamo di fronte più propriamente a un animismo, e gli dei, che pure ci sono, sono più ieratici e meno divertenti. Anche lo stesso Budda rientra bene nella categoria, creatore di una “religione senza Dio” trasformato in divinità a sua volta, e non è un caso che fosse indiano e induista nello stesso senso in cui si può dire che Gesù era Ebreo.
Ben diversi erano invece gli dei greci, che non rimandavano ad altro che a loro stessi, a un mondo umano divinizzato in cui valevano, in definitiva, le stesse passioni e ingiustizie, senza un principio ordinatore più elevato, di fatto lasciato alla libera speculazione dei filosofi.

Questi dei mediatori sono accompagnati da scritture non dogmatiche e sommamente interpretabili come i Veda, che non hanno risposte chiare su moltissimi punti. Anche nel Mahabarata, il buon Yudishtira che interroga Bhisma sul letto di frecce non fa che lamentarsi della contraddittorietà delle scritture, e gli viene opposta la necessità di studio, meditazione e interpretazione, compito riservato ai bramini.



Pensavo a queste cose approfondendo le storie di questi strani dei, o riflettendo sul culto Baha’i del tempio del Loto che ho visto a Dehli (il quale culto, per inciso, al di là del messaggio di fondo per me condivisibile aveva un bel po’ di problemi tutti suoi, come un fondatore che proclamava di essere Gesù Cristo redivivo, per dire), o alla disinvoltura ai limiti della più spudorata faccia tosta con cui gli induisti hanno reintegrato il Buddismo, nato come dottrina dissidente e riassorbito considerando Budda una semplice reincarnazione di Vishnu. Ma la vera epifania c’è stata quando, all’esterno di un tempio di Jaipur, oltre alla massa di dei induisti trovo scolpiti, sullo stesso piano gerarchico degli altri, Gesù, la Madonna, Mosè, Zoroastro, Confucio e persino Socrate (il quale, ahimè, era forse l’unico a non entrarci nulla). Quando ho chiesto il perché alla guida indiana che mi accompagnava, e che poco prima si era prostrato con devozione (compiendo per di più una rakka musulmana) davanti a Vishnu e alla sua consorte Lakshmi, mi ha risposto, come fosse la cosa più ovvia del mondo, che gli induisti non vedono alcuna contraddizione fra la loro e le altre fedi religiose. È come se dicesse che, poiché tendono tutti verso lo stesso Buco Nero, tutti gli dei sono parte dello stesso pantheon. E dunque? Siamo tutti un po’ induisti?




L'India vista in una strada

Oggi, trasferimento a Jaipur. È un viaggio di 6 ore in macchina (con auto e autista forniti dall’hotel, ché in treno era tutto esaurito) per coprire solo 250 Km e imparare nel tragitto qualcosa di più sul rapporto fra gli Indiani e la strada e sull’India in generale. In teoria sarebbe una grande autostrada a tre corsie, in pratica è qualcos’altro di non semplicemente definibile in cui succede di tutto: a parte l’idiosincrasia degli autisti indiani al concetto di “corsia”, per cui si procede slalomeggiando fra i camion a colpi di clacson, nel tragitto s’incontra chi fa manovra, chi viene contromano, chi si ferma, chi attraversa la strada a piedi. Ogni tanto si attraversa un centro abitato, e allora l’autostrada diventa una via di paese, con miriadi di scalcagnate botteghe che si affacciano sulla strada polverosa, auto parcheggiate in carreggiata, gente che va e viene, vacche brade al pascolo fra cumuli d’immondizia, carretti trainati da dromedari, e chi più ne ha più ne metta. Un viaggio istruttivo e che dà molto a cui pensare.


Jaipur infine mi accoglie con delle viste mozzafiato, ma di fare il turista se ne riparla domani.

martedì 15 dicembre 2015

Delhi, giorno 3


Lo scorgo da lontanissimo, a sovrastare il deprimente paesaggio di un sobborgo meridionale di Delhi. Un dito medio. Un gigantesco dito medio alzato in faccia al mondo. È questa l’impressione che ho avuto di fronte all’impressionante minareto di Qutb, costruito da Qutb ad-Din Aibak, il sovrano musulmano che sconfisse gli Indù nel XII secolo e inaugurò il Sultanato di Dehli (ben prima dei Moghul, dunque, a riprova ulteriore di quanto l’Islam sia stato fondamentale nella storia dell’India settentrionale). Il sovrano era originario dell’Asia centrale, non mongolo dunque, ma quasi: e infatti ho provato davanti alla sua opera quelle stesse sensazioni di potenza che, secondo i libri, trasmettono le realizzazioni di quei popoli seminomadi, che spero un giorno di poter vedere dal vivo.




In soldoni, il minareto di Qutb è un’opera di un’arroganza senza pari. Non è un vero minareto, per quanto intorno ci fosse comunque una moschea, ma una torre della vittoria, un segno di supremazia e dominio piantato plasticamente in un territorio a reclamarne indiscutibilmente la sovranità. È altissimo (72 metri), e le foto non gli rendono minimamente giustizia. Ed è anche bellissimo: la pianta a stella, la rastrematura accentuata, i costoloni vigorosi, le fasce di scritte coraniche meravigliosamente decorate, i cinque terrazzamenti a muqarnas scolpite in pietra rossastra. È anche perfettamente conservato, a differenza della moschea, la più antica d’India, che invece è in rovina. L’arroganza è evidente anche in quella, a partire dal nome, Quwwat al-Islam Masjid, moscha Potenza dell’Islam, costruita usando materiale ricavato da 27 templi indù e jain distrutti. Le colonne infatti sono tipicamente induiste: segmentate e decorate all’inverosimile, anche se gli aniconici islamici hanno eliminato ogni rappresentazione antropomorfa lasciando solo ornamentazione geometrica e vegetale, in linea con i loro criteri estetici.





Nella moschea c’è anche la tomba di Iltutmish, il primo Sultano di Dehli in senso proprio nonché il primo sovrano musulmano a costruire una tomba dinastica, concetto sconosciuto in India dove era in uso la cremazione dei cadaveri. È parzialmente in rovina (la cupola è assente), ma ancora perfettamente leggibile: un semplice cubo rosso, sobrio e spoglio all’esterno, quasi modesto, decorato all’interno con motivi di grande raffinatezza. Specie se confrontato con l’arroganza del minareto lì accanto, traspare un senso di umiltà da questa sepoltura, un sentimento religioso autentico. Peccato che subito dopo ci sia un rilancio di arroganza ancora maggiore, nella forma di un troncone di quello che doveva essere un minareto ancora più grande. Ma stavolta l’orgoglio è stato eccessivo ed è stato giustamente umiliato, visto che il moncone giace tristemente incompiuto. Arroganza, umiltà, ancor più arroganza, punizione: quasi come una parabola iscritta nella pietra.



Nel cortile della moschea svetta una colonna di ferro induista che risale all’impero Gupta (IV-VII secolo), un prodigio di metallurgia che impiega tecniche anticorrosione che saranno eguagliate solo nell’800. E con questa gli induisti non dico che pareggino, ma accorciano degnamente le distanze.

Il pomeriggio visito un’altra tomba Moghul, l’ultima. Si tratta del monumento funebre di Safdar Jang, un nobile molto potente. È stata realizzata nel ‘700, quando la dinastia era ormai agli sgoccioli, ed è considerata l’ultima scintilla dell’architettura Moghul prima della fine.


In effetti il risultato è elegante, ma si nota un gusto ormai estenuato, quasi decadente nell’eccesso di ornamentazione. Specie vista dall’ingresso, inquadrata da un viale di palme e coronata dalla cupola a meringa, pare una visione uscita dalle Mille e una notte; ed infatti racchiude tutte le suggestioni esotiche che definiranno nell’immaginario collettivo un’idea del mondo musulmano tutta sfarzo e orpelli, lontana dalla vigorosa semplicità o dall’eleganza delle realizzazioni migliori.




Poiché non è un monumento dei più noti non c’è quasi nessuno, eccetto una scolaresca in gita scolastica, tutti con le loro belle uniformi blu. Sono allegri, chiassosi ed entusiasti, ed incuriositi dallo straniero si avvicinano e iniziano una conversazione in un inglese basilare. Sto al gioco, ed alla fine ne esce un video divertente, che per qualche motivo non riesco a caricare.

L’ultima visita della giornata è a un edificio simbolo della Dehli moderna, il tempio del Loto, sede del culto Baha’i, fondato nel 1863 da un religioso persiano, che proclama la sostanziale unità di tutte le religioni, considerate tutte sfaccettature di un unico principio divino. Purtroppo lo trovo chiuso, ma in definitiva va visto dall’esterno, ed è curioso vederlo apparire da lontano, anche questo in un anonimo sobborgo del sud di Dehli, come un fiore gigante che stia spuntando dal suolo.