sabato 7 febbraio 2015

Parigi

Se Parigi val bene una messa, figuriamoci una levataccia. Torno qui sempre volentieri, anche quando, come stavolta non ho tempo di fare praticamente nulla. E tuttavia, basta attraversare a piedi le Tuileries, con il Louvre alle spalle, la Senna di fronte e la torre Eiffel che appare a destra in lontananza per sentirsi bene. È una città europea, e in quanto tale ci si sente a casa. E per ceti versi è la più europea di tutte, visto che sua caratteristica peculiare è che tutto quel che di importante è accaduto qui è accaduto nella sfera pubblica, sotto gli occhi mai indifferenti del resto del continente. Anche l’arte è pubblica a Parigi, con l’impressionismo che è nato quasi più come reazione alle dinamiche di quell’istituzione tipicamente francese che è stato il Salon che non per "semplici" motivi artistici. La dimensione interiore a Parigi non esiste: tutto è esteriore, esplicito, sempre in bilico fra leziosità e retorica e tuttavia in qualche modo miracolosamente elegante. In questo è specchio fedele dell’identità francese, con la sua spocchia, il suo nazionalismo, il suo focus ipocrita e spesso contraddetto sulle virtù repubblicane.

Stavolta però c’è qualcosa di diverso.

Sono stato a rendere omaggio a Charlie Hebdo. Lavoro in questo settore e non potevo non andare. A meno di un mese di distanza, l’atmosfera è ancora straziante. Inevitabilmente colpisce la realtà del luogo: giri un angolo ed è lì, esiste, è tutto vero, è successo. Nel solido, razionale, orgoglioso tessuto urbano di Parigi, è come imbattersi in una singolarità matematica. Il luogo è normale in modo quasi surreale, una via anonima del centro di Parigi, in gran parte occupata da uffici, con qualche negozio e un supermercato all’angolo. Sembrerebbe un quartiere come tanti, se non fosse per la polizia ancora schiarata in assetto da guerra e per la montagna di fiori, disegni, cartelli “Je suis Charlie”, scritte sui muri, candele, matite lasciate come testimonianza. C’è chi si ferma, chi fotografa, chi semplicemente passa perché vive o lavora lì, e getta uno sguardo con il disagio negli occhi. Charlie Hebdo faceva della satira spesso volgare e di grana grossa, ed esprimeva una posizione di ribellismo radicale ed anarcoide tutto sommato marginale, come provano le non stellari vendite del settimanale. Ma ora che questi moderni giullari sono stati falciati, siamo tutti qui a riflettere sul loro diritto a dire idiozie. Ed è un punto spinosissimo, molto più sensibile di quanto gli stessi terroristi probabilmente supponessero. Charlie Hebdo è caduto su quella linea sottile che separa fra loro satira, ingiuria, calunnia, correttezza politica, istigazione all’odio e alla violenza. C’è un limite alla libertà d’opinione? C’è differenza fra la trinità incularella di Charlie Hebdo e Calderoli che dà dell’orango alla ex ministra Kyenge? La verità è che ci piacerebbe che ci fosse una linea di demarcazione netta, a salvarci dalla necessità di stare sempre all’erta a presidiare l’intero territorio. Se quelli di Charlie Hebdo, nel loro modo spesso grossolano, volevano farci riflettere su questo, allora la loro morte è stata la loro battuta più tragica e riuscita. 
Lascio anch’io il mio omaggio, e torno mesto sui miei passi.