E alla fine, oggi, 19 dicembre 2015, ho visto il Taj Mahal. Ora, parliamoci chiaro: non sono mai stato interessato alla retorica delle “meraviglie del mondo”, status al quale il Taj Mahal è assurto relativamente di recente, dopo secoli di oblio di massa. Dovessi dire quando ne ho sentito parlare per la prima volta direi una bugia, ma è di sicuro una new entry in quel club esclusivo di monumenti iconici in cui le piramidi, la muraglia cinese e il nostro Colosseo sono membri da sempre. A vedere il Taj Mahal c’erano più turisti di quanti ne abbia visti finora in India, il che vuole appunto dire che la sua notorietà ormai è tale da renderlo meta obbligatoria per una larga fascia di persone (a cui non faccio certo una colpa, sia chiaro) non particolarmente interessate o competenti in materia ma attratte semplicemente dal suo status. Alla fine è sempre la solita storia dell’ “aura” di un’opera d’arte come teorizzata da Benjamin, ripresa, amplificata e pompata all’inverosimile dai media. L’opera d’arte, dunque, come icona di massa. E va comunque detto che questo approccio è tutt’altro che in contrapposizione a quello “da intenditori” di una supposta aristocrazia del gusto, visto che, almeno in un caso come questo, scopo di un monumento dinastico del genere era proprio quello di impressionare anche e soprattutto chi non avesse gli strumenti culturali per decifrarne il linguaggio in modo più sofisticato. Un discorso un po’ diverso per, dire, varrebbe per la Gioconda, ma ci porterebbe lontano.
Tutto questo per dire che, indipendentemente dal fatto che si fosse lì per farsi un selfie di fronte all’icona, o che si arrivasse come me un po’ più preparati, il risultato finale non cambia di una virgola: comunque la si rigiri, il Taj Mahal è un fottuto capolavoro.
Le proporzioni perfette, la raffinatezza e semplicità dell’ornato (alla fine si tratta solo di semplici “specchiature” in marmo, di qualche motivo geometrico e floreale e delle usuali scritture coraniche), il modo studiatissimo e consapevole, e tuttavia magicamente naturale, con cui gioca con i colori, con la luce, con i materiali (le proprietà traslucide del marmo, i riflessi delle gemme etc.), l’inquadramento prospettico nel giardino, col monumento retrocesso sul fondo rispetto al modello a pianta centrale della tomba di Humayun, e inquadrato scenograficamente dall’ariosità del fiume alle spalle, dai quattro minareti angolari e da possenti edifici ai lati (una moschea e un’esternamente identica residenza per ospiti) con cui contrasta cromaticamente e simbolicamente, tutto contribuisce a rendere l’impatto col Taj Mahal qualcosa di davvero unico.
In una giornata di sole, anche se foschiosa, il bianco del mausoleo dell’imperatore Shah Jahan e della sua amatissima moglie Mumtaz Mahal è abbacinante, e dopo un po’ gli occhiali da sole sono indispensabili. Peccato non poter vedere le sfumature rosate e aranciate che esibisce all’alba e al tramonto, e tanto meno l’effetto di lucentezza soprannaturale sotto il plenilunio, ma quel che ho visto basta e avanza.
Dopo di questo, l’Agra Fort, il Forte Rosso di Agra, anch’esso iscritto nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco e versione se possibile ancor più magnificente di quello di Dehli, finisce quasi per restare in secondo piano.
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