giovedì 21 agosto 2014

Seul, giorno 10

Ultimo giorno, ultimo museo. È il Leeum, creato dalla fondazione Samsung. Esatto, quella Samsung. Ed è l’ennesimo museo di grande spessore che vedo qui. E per una volta, dopo la lamentela sulla disfatta dell’architettura in quest’epoca di archistar, è proprio l’architettura la principale protagonista. Abbastanza incospicuo dall'esterno, si rivela in tutto il suo spessore all'interno. Essenzialmente, si tratta di due musei distinti integrati in un unico edificio. Il primo, progettato da Mario Botta, raccoglie capolavori di arte tradizionale coreana (ancora una volta spiccano le ceramiche Celadon) ed è imperniato su una rotonda centrale che è insieme rigorosa e scenografica. La scala a chiocciola richiama in qualche modo il Guggenheim, ma l’effetto è decisamente diverso, meno organico e più geometrico. L’inserimento di un’opera d’arte contemporanea, essenzialmente una stalattite pop che la percorre per tutta l’altezza come una surreale decorazione natalizia, è per una volta funzionale all'effetto complessivo.



Il secondo museo, progettato dal francese Jean Nouvel, è invece più convenzionale, e ospita la collezione d’arte contemporanea, con un po’ di bei nomi e qualche bella opera, di gente come Foutrier, Beuys, Twombly, De Kooning ed altri. C’è anche una colomba in formalina di quell'abile provocatore che è Damien Hirst, la prima sua opera vagamente interessante che vedo.
Ai contenuti e all'architettura, si aggiungono, tanto per cambiare, dei criteri museografici all'avanguardia. In definitiva, complimenti alla Samsung: questo è proprio quel tipo di committenza privata culturalmente avveduta di cui c’è bisogno. Ed è chiaro che dalle varie Fiat, Mediaset e compagnia non c’è da aspettarsi niente di simile, giusto?

Nel pomeriggio tocca all'ultimo sito tutelato dall'UNESCO, il santuario Jongmyo, dove sono sepolti i re della dinastia Joseon. Sobrio e solenne, è un lunghissimo edificio con una camera dedicata ad ogni re. La solennità del luogo è accentuata dal fatto che non è mai stato un luogo pubblico né è stato concepito per esserlo. Solo il re e il suo seguito poteva accedere, quando, due volte l’anno, si teneva il rituale in onore degli antenati, autentico perno dell’etica confuciana. Il rituale si tiene tuttora, ed è tuttora vietato calpestare lo speciale percorso che si suppone seguano gli spiriti.





E con questo, ciao ciao Corea.

Seul, giorno 9

Oggi giornata di musei. Il War Memorial of Korea racconta la storia della Corea dal punto di vista della guerra, esperienza purtroppo centrale per una piccola nazione schiacciata da vicini più forti, come Cina e Giappone. Si comincia dall'antichità, con la nave-testuggine usata contro i giapponesi a farla da padrone, ma la fetta principale e il senso profondo del museo sta nella rievocazione della Guerra di Corea, una ferita ancora aperta che si rimarginerà soltanto quando le due Coree si riunificheranno. Pur con qualche inevitabile enfasi retorica, il museo racconta benissimo tutte le fasi del conflitto, comprese quelle precedenti e successive. E lo fa con strumenti museografici d’avanguardia: non solo reperti, non solo documenti, ma filmati, diorami, ricostruzioni, installazioni, esperienze interattive. E si esce non solo avendo capito qualcosa in più della storia e della psicologia di una nazione, ma davvero ammirati per la perfezione dello strumento-museo messo in campo, utilizzato anche a fini educativi e in senso proprio ideologici, visto che è una tappa fondamentale per ogni studente coreano in gita scolastica.




Il National Museum of Korea è un altro museo gigantesco, che racconta tutta l’arte coreana nei suoi cinque millenni di storia. E se ovviamente si notano i caratteri di un’arte essenzialmente provinciale, influenzata da Cina e Giappone, non mancano alcune significative eccellenze autoctone, come la statuaria, col raffinatissimo Budda pensatore, o la ceramica Celadon, di uno splendido verde acquamarino, che si è espressa in oggetti di rara bellezza. A maggior ragione dopo aver visto i palazzi, se dovessi riassumere in un colore questa esperienza coreana, il colore sarebbe il verde.


Seul giorno 8, e sull'architettura

Il palazzo reale Changdeokgung col suo Giardino Segreto, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, è una meraviglia. Vasto, sapientemente asimmetrico, a tratti labirintico, pieno di padiglioncini e angoli suggestivi nascosti nei recessi del bosco dietro il palazzo, è l’esempio migliore viso finora di palazzo imperiale in stile che definirei giapponese, se non fosse con questo fare un torto ai coreani e al fatto che in Giappone di palazzi così non ce ne sono. Col sole dovrebbe essere meraviglioso, ma anche sotto una pioggerella impalpabile e un cielo brumoso, il verde del tempio si fonde a perfezione con l’atmosfera scura dei boschi, con effetti di rara suggestione. 






Meno bello ma ugualmente interessante il vicino palazzo Deoksugung, protagonista di un autentico cortocircuito storico-artistico nel momento in cui accanto al padiglione reale vedo un edificio in stile greco, costruito dai giapponesi durante l’occupazione e progettato da un architetto britannico.





E poi Bukchon, angolo di Seoul rimasto fermo agli anni settanta e preservato nel suo stato originale come memoria storica, con tutte le sue meravigliose case in stile tradizionale. È come un villaggio chiuso nel cuore di Seoul, e il contrasto lo rende infinitamente suggestivo.




Ora, il contrasto fra Bukchon e i palazzi Joseon, da una parte, e la città moderna che li circonda, dall'altra, è eclatante. Seul è una città gigantesca, ma al di là delle dimensioni è un tipico esempio di quella cultura urbana che è diventata lo standard globale. In un’economia capitalistica, in cui viene incentivata l’iniziativa privata di individui e gruppi (le aziende), è probabilmente inevitabile che si arrivi a questo punto, a un punto cioè in cui a una cultura architettonica elitaria si sostituisce una cultura che non ha altri criteri che non l’imponenza fine a se stessa; o meglio, tesa a testimoniare in forme comprensibili a tutti, e dunque ridotte al minimo comune denominatore della dimensione intesa come misura quantitativa, il successo economico della committenza. Nelle città contemporanee, devo tristemente constatare la sostanziale sconfitta all'architettura. Certo, ci sono e ci saranno sempre dei begli edifici, ma nel loro complesso le città globali si assomigliano tutte e sono brutte nella migliore delle ipotesi, inumane nelle peggiori. L’Europa e l’Italia in qualche modo resistono, ma solo perché hanno centri storici che non permettono a questa architettura di mera propaganda di fare quello che vuole. 


Begli scorci

Intendiamoci, non sto affatto criticando il capitalismo in quanto tale. Evviva la libertà e la libera iniziativa. È che nella cultura di massa e nella comunicazione globale, che di quel capitalismo sono espressione finale, un’arte elitaria come l’architettura non è più a suo agio, con danni non tanto per una ristretta cerchia di amatori, ma per tutti. Oriente e Occidente hanno sviluppato due diverse sensibilità di bello architettonico, una più integrata con la natura, l’altra più propriamente urbana. Ma entrambi i modelli sembrano in crisi, inutili e impraticabili nelle megalopoli di oggi. E dunque che fare? Da una parte occorrerebbe cultura, una committenza e un’architettura più avvedute. Dall'altra le istituzioni pubbliche dovrebbero farsi carico anche della dimensione del bello, così negletta dall'architettura prevalente, pedissequamente al servizio del sistema. E dovrebbero ugualmente farsi carico della funzione del simbolo, che rischia tristemente di sparire dall'orizzonte urbano. Non si tratta di opporsi alla modernità in nome della conservazione, ma di spingere per nuova architettura che risponda a diversi valori, etici ed estetici. L’architettura è forma e volume, ma soprattutto spazio vitale. E la commensurabilità fra uomo e l’architettura in cui vive è un valore che va al di là degli stili. Frank Lloyd Wright e tanti altri l’avevano capito, ma oggi pare non importare più a nessuno.

Bella merda

Mentre rifletto su queste cose rientro in hotel, e come beffa che si aggiunge al danno, becco in TV uno dei soliti documentari americani, di quelli che se non spettacolarizzano il loro oggetto non sanno cosa fare nella vita. Si parla, guarda caso, di mega costruzioni. E si sostiene che l’uomo ha sempre aspirato alle grandi costruzioni (vero), e che ora possiamo farne di ancora più grandi (vero), e che tutto ciò è meraviglioso come le magnifiche sorti e progressive. Ma vaffanculo, va.

mercoledì 20 agosto 2014

Seul, giorno 7

È lunedì, e come accade in Italia è quasi tutto chiuso, comprese le attrazioni turistiche. Una delle poche aperte è il Seoul Art Center, gigantesco complesso dedicato alle arti situato nell'area meridionale di questa sterminata città. L’arte è ormai globale, e non mi stupisco affatto di trovare a Seul esposizioni dedicate a Munch o a una specie di summa dell’arte moderna, dagli impressionisti fino ai contemporanei. Scelgo quest’ultima, ed in effetti i nomi ci sono un po’ tutti, con qualche scelta inusuale e opere non proprio famosissime. Tutto sommato interessante.

Più tardi Gino propone di uscire da Seul, ancora in direzione sud. Ci dirigiamo in macchina verso un tempio buddista fuori città, immerso in colline boscose che ricordano il paesaggio della nostra mediavalle, pur con alberi e rumori diversi. Prima di arrivare ci fermiamo a mangiare in un ristorantino rurale, in una vecchia casa tradizionale, tutta in legno con corte centrale. Buono il cibo, ma soprattutto bella l’atmosfera, quasi da vecchio film.


Il tempio è molto suggestivo. Non ha la grandeur dei templi urbani (che qui non ho ancora visto, mentre è pieno di chiese ovunque) che ho visto in Giappone, non è un’attrazione turistica, ma un vero luogo di raccoglimento in cui si viene a pregare. Il tempio, composto da un edificio principale circondato da tempietti minori, è sovrastato da un’enorme statua di Budda disteso, tutta fatta di sassi colorati. I colori del tempio, rosso, verde e blu, insieme a quelli squillanti delle lanterne, si fondono alla perfezione col verde dei monti e il grigio plumbeo del cielo piovigginoso. È fresco, l’atmosfera è silenziosa e raccolta e si sta molto bene.







Di rientro a Seul, passiamo finalmente da Gangnam, la parte più nuova e luccicante, tutta grattacieli ultramoderni, schermi giganti, centri commerciali enormi, auto di lusso, marchi alla moda. È il quartiere consacrato su scala mondiale da quel ciccione insopportabile di Psy, che con la sua Gangnam Style ha bonariamente preso in giro, ma in realtà celebrato, la vita superficiale di questa Seul edonista.




Seul, giorno 6

Primo vero giorno a Seul, che in realtà si pronuncia Soul, come anima. Gino, che si dimostra ogni giorno sempre più amichevole e disponibile, si offre di portarci in giro, me e Anna. Dopo esserci incontrati con qualche difficoltà in una gigantesca stazione metro, ci dirigiamo verso il Gyeongbokgung, il principale palazzo reale della dinastia Joseon, che ha regnato in Corea per più di 500 anni. L’enorme viale antistante, dominato dalla statua dorata di Re Sejong, inventore dell’alfabeto coreano, è dove ieri il Papa ha radunato una folla oceanica, e infatti si vedono ancora bandiere e striscioni, nonché qualche turista con indosso una buffa t-shirt col faccione di Francesco. 


Il palazzo è parzialmente preservato, ed è in corso una campagna di ricostruzione per reintegrare gli edifici mancanti. A differenza del Giappone, dove ogni edificio storico è bene o male ancora in utilizzo, il Gyeongbokgung è trattato a tutti gli effetti come un “bene culturale”, ed infatti è meta di frotte di turisti. Il palazzo è sobrio ed elegante, senza fronzoli, in perfetto accordo coi valori di una dinastia confuciana. C’è un tour in inglese gratuito, tenuto da una simpatica signora in abiti tradizionali, che ci racconta della dinastia Joseon e di re Sejong in modo tale da rendere impossibile il non trovarli simpatici. Quando arriva a raccontare la fine della dinastia, con i giapponesi che invadono la Corea e uccidono l’imperatrice, si tocca di nuovo con mano quanto tesi siano ancora i rapporti fra i due paesi su quanto accaduto in passato.



Quelli lassù sono i protagonisti di Viaggio in Occidente, con in testa il bonzo Sanzong 
e subito dietro Songoku 


Sul retro del palazzo c’è la Blue House, sede del locale Primo Ministro. E in virtù della presenza del Papa, anche qui è tutto uno sventolare di bandiere bianche e gialle.



Dopo il pranzo in un ennesimo, delizioso ristorantino, ci dirigiamo verso Insa-dong, quartiere commerciale pittoresco e caratteristico, sede di innumerevoli negozi tradizionali che mandano Anna letteralmente in tilt. Il pomeriggio passa veloce: un saluto ad Anna, che l’indomani ha l’aereo, e via di nuovo in hotel. 

martedì 19 agosto 2014

Corea, giorno 5

La fine del festival coincide con una visita all'archivio del museo del Manhwa, una specie di bunker sotterraneo a cui si accede attraverso misure di sicurezza degne di una banca. Dentro la responsabile, una splendida ragazza che parla un inglese perfetto, ci illustra il lavoro che viene condotto lì. Reprimo un moto d’invidia, e alla fine lei mi spiega in una semplice frase i motivi di un supporto istituzionale che per me ha del miracoloso: “siccome qui in Corea non abbiamo risorse naturali, abbiamo deciso di investire in contenuti”. Il che vuol dire industria culturale e istruzione, che ne è alla base. Semplice e disarmante.



È ora di muovere verso Seul, e mi accompagna Gino, assieme ad Anna Voronkova di Kommissia, che rivedo volentieri a qualche anno di distanza dal primo incontro a Mosca. Ci sistemiamo nei rispettivi hotel, poi Gino si offre di portarci in giro. Sembra una barzelletta: ci sono un italiano, una russa e un coreano a spasso per Seul. Hilarity ensues.


Una prima rapida occhiata a Seul e alla fauna locale

Dopo un breve giro nei dintorni del mio hotel, caratterizzato dalla presenza di un prestigioso campus femminile che influenza abbondantemente la fauna locale, approfittiamo della macchina di Gino per riuscire da Seul, paralizzata nella sua parte centrale dalla presenza del Papa, e dirigerci a nord, nella zona demilitarizzata al confine con la Corea del Nord. È il famoso 38esimo parallelo, teatro della guerra di Corea (quella di MASH, e magari fosse stata così divertente) e ora confine con quello che probabilmente è lo stato più tragicamente paradossale del XXI secolo. Pagando un biglietto piuttosto salato è possibile penetrare più a fondo nella DMZ, sotto il controllo dei militari, e visitare anche alcuni dei tunnel che la Corea del Nord aveva provato a scavare per invadere il sud. Ma a me basta essere arrivato qui, in questo luogo trasformato in memoriale. C’è una locomotiva sventrata rimasta ferma sui binari per più di 50 anni, divenuta simbolo della separazione fra le due Coree. C’è il monumento ai caduti, un museo e l’immancabile negozio di souvenir. C’è un grande prato in cui la gente viene per fare picnic e far volare aquiloni, o dove si tengono concerti per la pace, come quello in programma oggi. E c’è un osservatorio, una struttura sopraelevata con dei binocoli, attraverso i quali puoi seguire la vecchia ferrovia, oltre il ponte sul fiume ormai distrutto, che si perde in una gola in fondo alla quale si intravedono le prime alture della Corea del Nord. E insomma, come per stelle e galassie attraverso un telescopio, pur se da lontano posso dire di aver visto dal vivo la Corea del Nord. E fa un’impressione decisamente strana.


Laggiù in fondo c'è la Corea del Nord

lunedì 18 agosto 2014

Corea, giorno 4

Oggi è la giornata clou della mia presenza qui, almeno dal punto di vista istituzionale. Prima c’è una specie di conferenza con interventi sul diritto d’autore, poi comincia la parte che mi riguarda, con la presentazione delle varie esperienze internazionali. Sembrava una riunione dell’ONU, con le bandierine delle nazioni sul tavolo, ogni relatore col suo traduttore personale, i saluti istituzionali all'inizio. Con la mia presentazione segno un facile goal a porta vuota.

Accanto a me, Axel Alonso, Editor-in-chief della Marvel

Dopo aver salvato il mondo, il gotha del fumetto mondiale si sposta soddisfatto a pranzo, in uno strepitoso ristorantino lì vicino. La cucina coreana si conferma eccellente, meno raffinata ma più vigorosa rispetto a quella giapponese.

L’ultimo atto istituzionale è una visita al municipio per il saluto al sindaco, che è anche l’occasione per assistere alla mostra che tanto scandalo ha suscitato ad Angouleme, incentrata sulle donne costrette a “confortare” i soldati durante l’occupazione giapponese. Nella hall del municipio ci sono ci sono altre cose che mai mi aspetterei di trovare in un municipio dalle nostre parti, come un Comics cafè ed un robottone in bella mostra, riproduzione gigante di un modellino di carta prodotto sul territorio come giocattolo per bambini.



Poi comincia l’intrattenimento per gli ospiti, con breve tour a Seul. Si comincia con il 63 City, un grattacielo completamente dorato, l’unico fra quelli che ho visto finora dotato di una qualche personalità. In cima c’è una galleria d’arte con annesso osservatorio panoramico, con gran bella vista su tutta la città. 



Poi si va a cena, neanche a tre ore dalla fine del pranzo. Il ristorante è alla base della torre, ed è specializzato nel piatto giapponese noto come Shabu-shabu, sottili fettine di tenerissima carne di manzo cotte un po’ alla volta in una scodella di pietra posta su una piastra elettrica integrata nel tavolino. Squisito.


È poi la volta della crociera sul fiume Han, esperienza piacevole più per il fresco e la conversazione che non per la vista, invero non memorabile. Tant’è che, per vivacizzare la cosa, i perfidi coreani si inventano prima uno spettacolino a base di getti d’acqua sparati da un ponte, con tanto di doccia finale, poi l’apparizione a sorpresa di un tizio che vola con zainetto a propulsione jet, neanche fosse Tony Stark. La cosa più divertente è stato passare sotto il ponte in cui ha il suo rifugio il mostro di The Host, ed in effetti appare chiaro perché possa venire in mente di girare un film di mostri proprio lì.


A un certo punto si sente il rumore di svariati elicotteri, che passano sopra di noi scortandone uno più grande. Pare fosse il Papa, di ritorno a Seul dopo la giornata asiatica della gioventù, tenutosi in un’altra città più a sud.


Ma la vera attrattiva della giornata risulta Lim detta Chiara (don’t ask), una volontaria buffissima che, oltre a Gino, mi affibbiano per tutta la giornata. Che sarebbe anche carina, quando non impegnata a fare queste facce qui:


Scherzo, Chiara, sei uno spasso.