martedì 24 giugno 2014

Tel Aviv giorno 6, e la fine del viaggio

La mattina dell’ultimo giorno in Israele la passo discutendo con Rutu i dettagli della sua esposizione. La mia idea verte sul tema dell’identità, per cui le avevo chiesto di esporre degli oggetti personali che potessero costituire una rappresentazione visiva della sua personalità, senza ledere la sua privacy. A lei l’idea è piaciuta e anzi ha rilanciato, proponendomi di usare fotografie al posto di oggetti, per molti versi assai più personali. Manco a dirlo, la cosa mi intriga molto.


Il pomeriggio lo dedico a provare a risolvere la grana del bagaglio perduto (esito: fallimento) e la questione del gattino, che è con me da quando l’ho recuperato a Gerusalemme e che ha innescato una vera catena internazionale di solidarietà (esito: successo! E a proposito: grazie a tutti). Si cena a casa di Hila, con il suo ragazzo e Rutu, e in piena notte si riparte per l’aeroporto. Decollo all’alba, arrivo a Fiumicino di prima mattina, che poi passa tutta nel tentativo di risolvere la grana del bagaglio sul fronte italiano (risultato: nuovo fallimento). Alla fine rientro in casa alle sei del pomeriggio, portandomi dietro del bel materiale e dei ricordi indelebili.


Un po’ è il lato umano della questione. È difficile spiegare a parole la misteriosa vicinanza che si crea in un gruppo di persone impegnate in uno scopo comune e costrette a vivere per un po’ di tempo a stretto contatto, come in una dimensione separata dell’esistenza. Alla fine si era una specie di grande famiglia, il cui perno sul versante israeliano è stato sicuramente la bravissima Hila, tanto disponibile e aperta quanto Rutu è invece riservata e introversa. C’è poi il concentrato di emozioni storiche, artistiche, culturali e spirituali ispirato da Gerusalemme, e l’interesse suscitatomi da Tel Aviv, città vitale e cosmopolita che è l’altra faccia di questo paese giovane e antico, europeo e orientale, tradizionale e moderno, affascinante proprio nelle sue contraddizioni.
Adesso si entra in una fase diversa. Si comincia a lavorare sul girato, si progetta l’allestimento ora che le idee sui contenuti sono più chiare, si fa insomma tutto il necessario per portare il progetto alla sua forma finale e compiuta, che esordirà in occasione di Lucca Comics & Games 2014. Un grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto, all'ambasciata d’Israele in Italia che ci ha supportato e a UCEI per l’ospitalità su queste pagine.


lunedì 23 giugno 2014

Tel Aviv, giorno 5

L’ultimo giorno di riprese è imperniato su Rutu che riceve un premio in un locale trendy di Tel Aviv, per il suo contributo (l’illustrazione di copertina) al disco di una brava cantante israeliana, il cui nome vivrà per sempre occultato nelle pieghe della mia memoria, che ha ottenuto tipo il disco d’oro. Pare che fossimo circondati da celebrità, di quelle del tipo lei-ha-vinto-un-talent-e-ora-canta-recita-ne-parlano-tutti-perché-è-fidanzata-sposata-incinta, ma io ero troppo affaccendato ad approfittare del Wi-Fi del locale per svolgere un po’ di lavoro a distanza, cosa che in questi giorni ho potuto fare solo nei ritagli di tempo. La cantante in questione improvvisa un mini concerto, molto bello e d’atmosfera. Devo dire di aver lavorato in posti molto peggiori.



Alla fine del concerto il mio applauso è sincero, perché vuol dire una cosa: il documentario è finito. Abbiamo parlato di tutto: di Rutu e della sua storia personale, dei suoi lavori, di radici, famiglia, identità, vita, morte, amore, umorismo. Il materiale raccolto è di grande interesse, e sono sicuro che ne uscirà un documentario di ottimo livello. Domani resta solo da fare qualche breve ripresa in esterni e, soprattutto, ci si vede con Rutu per ragionare della mostra in cui il film sarà inserito, scegliere i pezzi da esporre, recuperare i file dei suoi lavori da montare insieme al girato, ed altre varie ed eventuali. Dai, che siamo alla fine.


venerdì 20 giugno 2014

Tel Aviv, giorno 4

Rientrati a Tel Aviv, ci aspetta una lunga e faticosa giornata di riprese in esterni, con Rutu al seguito. Andiamo nei luoghi legati ai suoi libri e ne approfondiamo i temi. Particolare emozione mi suscita il cimitero di Kyriat Shaul, dove Rutu parla di vita e di morte.


È difficile per i non addetti ai lavori (quale per molti versi mi ritengo tuttora anch'io) capire dall'esterno il lavoro e la fatica necessari di girare un documentario. È un processo lungo e metodico, che richiede pianificazione ma all'occorrenza anche grande capacità di improvvisazione. Noi ci regoliamo più o meno così.
Si comincia da un’idea contenutistica, da una traccia di argomenti sulla quale sollecitare l’artista, e questo è compito mio. Il nostro responsabile di produzione, che di fatto svolge anche mansioni di regista, ha il compito di interpretare questi miei input e trasformarli in idee visive e in una possibile scaletta. A quel punto si comincia a ragionare con la controparte (nel nostro caso l’interlocutore era Hila) per individuare le location più adatte a ogni singolo segmento. Ne esce un sommario piano di produzione, un documento in cui si dettaglia nel modo più preciso possibile cosa si farà ogni giorno e dove. Il piano di produzione viene rifinito in successivi passaggi fino alla versione definitiva. Quando cominciano le riprese si entra in una specie di tunnel, fatto di spostamenti sotto il sole con tutta l’attrezzatura a spalla, discussione su ogni singola inquadratura, concentrazione sempre vigile e molta, molta pazienza. Alla fine della giornata ci si ritrova fisicamente e mentalmente spossati. Quando alla fine tutto il materiale è girato, e si parla di diverse ore di filmato, si esce da un tunnel solo per entrare in un altro. Il responsabile dei contenuti (eccomi!) deve riascoltare tutto, individuare le parti più interessanti e passare le indicazioni a chi si occuperà del montaggio. Nel nostro caso specifico io mi occuperò anche della traduzione in italiano, che una versione scritta serve sia per i sottotitoli che per il catalogo. Montaggio e sonorizzazione chiudono il processo, ma almeno su questi ultimi passaggi il mio lavoro si limita a dei feedback.

Tutto questo per dire, prima di tutto a me stesso: dai, che il primo tunnel è quasi alla fine.

Gerusalemme, giorno 3

Può bastare mezza giornata a Gerusalemme, con camera e microfoni al seguito, per rendersi davvero conto di cosa rappresenti questa città? Sicuramente no, ma l’impatto è stato forte lo stesso. 


Mi aspettavo un’atmosfera mistica, ieratica, solenne, un po’ come ad Assisi, ma mi sono trovato di fronte a qualcosa di completamente diverso. Il fatto è che nello spazio ristrettissimo della Città Vecchia sono compresi i siti sacri di tre religioni diverse, tutti meta di un pellegrinaggio continuo; e il pellegrinaggio per sua natura porta con sé una frenesia, un’aspettativa e un’eccitazione che non ho visto ad Assisi, ma che qui si respirano nell'aria e rendono l’atmosfera elettrica. Il vivacissimo mercato contribuisce all'atmosfera complessiva, che è vociante, mossa, colorata, profumata di spezie e di frutta fresca. 




Il Muro, nella sua nuda essenzialità, nel rapporto personale che instaura coi fedeli è quanto di più vicino a un’autentica esperienza mistica, indubbiamente un simbolo potentissimo. La cupola della Roccia mi suscita più che altro un interesse architettonico e artistico: di ascendenza bizantina, è il primo di una lunga serie di eccezionali monumenti architettonici che hanno reso unica e straordinaria la civiltà islamica, prima che si chiudesse in stanche ripetizioni del passato. È un peccato che l’area fosse chiusa, e ho potuto ammirare lo splendore delle maioliche azzurre e lo sfavillio dell’oro sui tetti solo da lontano. 


Ancora diverso il caso della Basilica del Santo Sepolcro. Incassata fra le case, è un edificio architettonicamente composito, relativamente modesto, di base risalente ai crociati ma con evidenti rimaneggiamenti successivi. Contiene le ultime stazioni della Via Dolorosa, ma la fondatezza storica del posizionamento sul luogo di morte, sepoltura e resurrezione di Gesù è frutto di tradizione e probabilmente dubbia. Come monumento commemorativo, tuttavia, svolge egregiamente il proprio dovere. 


Dentro, le varie confessioni cristiane si affiancano nella gestione dell’edificio sacro, guardandosi, pare, un po’ in cagnesco. Quello che viene tradizionalmente identificato col sepolcro di Cristo si trova nell'ala sinistra, in una cappella circolare di pertinenza dei greco-ortodossi. È la famosa rotonda del Santo Sepolcro, servita da modello per numerose chiese crociate sparse per l’Europa. Di nuovo mi rendo conto che mi trovo nell'epicentro di onde fortissime che si propagano nello spazio e nel tempo. Per millenni la cristianità, che poi ha finito per coincidere in gran parte con il mondo occidentale, ha guardato a Gerusalemme come a un miraggio. Per millenni storie accadute in questi luoghi sono state raccontate e rappresentate in ogni modo possibile. Tutta la pittura italiana, per fare un esempio a me storicamente e geograficamente vicino, si è evoluta raccontando queste storie, sacre o meno che le si ritenga. E poi la Gerusalemme Liberata e Goffredo di Buglione; le crociate e i paladini di Francia; le immagini del vecchio testamento magistralmente interpretate da Rembrandt; il Noè di Bellini e la Susanna di Tintoretto; le innumerevoli annunciazioni, natività, crocifissioni, deposizioni, creazioni, cacciate dal Paradiso che ho visto in vita mia. A questa terra, all'ebraismo, alla Bibbia con vecchio e nuovo testamento, paghiamo tutti un debito di riconoscenza enorme, che si creda o meno. E le onde che si irradiano da questi luoghi, tanto più forti quanto più ci si allontana da essi, travolgono con la loro forza inarrestabile anche più dei luoghi in sé.


Gerusalemme, e la mano di Dio

Arriviamo a Gerusalemme al seguito di Rutu, che il mercoledì insegna lì all'accademia di Bezalel. La mattina se ne vola dietro a lei. Il pomeriggio, mentre Rutu resta ad insegnare, ci spostiamo con Hila alla città vecchia per riprendere qualche immagine iconica. La Cupola della Roccia era chiusa per una qualche ragione, per cui ci si avvicina al Muro del Pianto. E da qui in avanti la giornata prende una piega strana. Di fronte al Muro del Pianto, proprio nel camminamento che porta ai cancelli di sicurezza, si sente un miagolio disperato. Un gattino è appeso in condizioni precarie a un sostegno sul muro di fronte, ad almeno cinque metri di altezza. Cosa ci faccia lì è un mistero, come possa uscirne senza cadere altrettanto. Tutti passano col naso all'insù senza poter far nulla, un giovane con la kippah prova ad arrampicarsi ma arriva sì e no a metà strada. Quando passo io il gattino cade. Mi atterra proprio davanti, sulle quattro zampe, ma lui è molto piccolo e il salto molto alto. Rimane fermo lì dove è caduto, e lancia forti miagolii di dolore. Lo raccolgo senza pensarci due volte, lo tengo per la collottola e lo esamino velocemente: dall'esterno non si vede nulla. Mi siedo su uno scalino lì accanto e comincio ad accarezzarlo per provare a calmarlo. Un po’ alla volta smette di miagolare e ricomincia timidamente a muovere le zampette. Sembra stia bene, e comincia a fare quelle che sembrano fusa miste a brividi. Una signora che mangiava una polpetta me ne dà un pezzo, e lui ci si avventa. Gli do da bere e lui beve avidamente. Appare chiaro che nessuno lì ne sa nulla, che senza madre e in un luogo pieno di gatti randagi come la Città Vecchia un gattino così piccolo non ha alcuna possibilità di sopravvivere. E allora lì, di fronte al luogo più sacro per l’ebraismo, con un esserino indifeso che mi è caduto davanti come dal cielo, decido che se dovrà vivere e morire da gatto, come prima o poi sarà, non sarà lì e non sarà perché io non ho fatto il possibile per aiutarlo. Lo prendo, lo metto nel mio berretto e me lo porto dietro. Se possibile, penso, compro una gabbietta e me lo porto in Italia. Mentre gli altri sono oltre i cancelli di sicurezza a fare qualche ripresa del Muro, io li attendo fuori, e il gattino diventa l’attrazione di decine di turisti e pellegrini. È un diluvio di foto, di carezze, di incitamenti. Arriva anche quella che mi sembra una benedizione. Più tardi andiamo a mangiare in un localino di hummus e io mi siedo fuori, sempre col gattino nel berretto. Hila chiede se il gatto può entrare, e il gestore sorride e mi invita dentro. Più tardi Hila mi confessa che quello per lei è stato un momento speciale, che non aveva mai parlato col gestore arabo e che quando lo ha visto sciogliersi si è emozionata. Forse potremmo fare la pace usando i gatti, mi dice. Di ritorno alla macchina un altro signore palestinese mi si avvicina e mi allunga una scatola da scarpe, che per portare un gatto è decisamente più pratica del mio berretto. E insomma rientro a Tel Aviv col gattino, che ora è qui con me. Le regole di El Al per volare con un cucciolo prevedono che possa volare solo un animale vaccinato. Ho chiamato un veterinario, che mi ha detto che è impossibile vaccinare un gatto che ha meno di tre mesi perché ha ancora in corpo gli anticorpi della madre. Stando così le cose, pare che non possa portarlo in Italia. A questo punto vi chiedo: mi aiutereste a trovare una casa a Tel Aviv per questa bestiola?


mercoledì 18 giugno 2014

Tel Aviv, giorno 2


La prima impressione di Tel Aviv è quella di una città vitale e molto europea. Inutile nasconderlo: storia e cronaca ci hanno inculcato l’idea che Israele sia un luogo se non pericoloso quanto meno precario, un paese semi-militarizzato in una condizione di guerriglia permanete. La normalità e la voglia di vivere di Tel Aviv smentiscono inizialmente questa impressione. Basta poco però per capire che le complessità sono dietro l’angolo. Ci sono ragazzi e ragazze in divisa, che sembrano quasi boy scout in libera uscita quando li vedi con le famiglie o con gli amici a fare tutte le cose tipiche della loro età, ma sai che stanno facendo i due anni obbligatori di servizio militare. C’è la stessa Hila, che anni addietro ha avuto un compagno di classe morto in un attentato. C’è tutto lo spettro delle religiosità possibili, in quello che a prima vista sembra un equilibrio quasi miracoloso. L’impressione, o forse la speranza, è di avvertire sullo sfondo una specie di laicità, intesa come rispetto (o indifferenza, sentimento più probabile in un contesto in cui ognuno è convinto in cuor suo di avere ragione ma non sente la necessità di convertire gli altri) per le identità altrui.

Impegnato a seguire Rutu per il documentario, la mia impressione della città è tuttavia frammentaria, composta dalle tessere dei luoghi in cui mi trovo a filmare con lei e delle persone che incontro nel corso del lavoro. Segue dunque elenco di impressioni sconnesse:

  • A Tel Aviv c’è una forte componente di popolazione giovanile, che vuole divertirsi ed esprimersi.
  • Ci sono locali accoglienti e amichevoli, in cui si mangia e si beve decisamente bene.
  • Ci sono innumerevoli case e palazzine in stile Bauhaus, costruite da architetti in fuga dal nazismo e giustamente considerate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO; magari non compensano l’assenza di un reale tessuto storico, ma dotano la città di una forte identità architettonica e la agganciano a un ben preciso momento culturale, in forte continuità con la tradizione europea. Dirò anzi che il Bauhaus, fredda astrazione teutonica di rigore quasi calvinista, trova nel sole e nella luce di Tel Aviv lo scenario ideale per dimostrare tutta la sua umanità, e non riuscirò più a pensarlo sconnesso dai colori del Mediterraneo.
  • Tutti parlano un ottimo inglese, per cui è semplice non solo chiedere informazioni, ma anche stringere amicizie o interloquire con i simpatici locali. E manco a dirlo, i mondiali di calcio sono stati un ottimo spunto.
  • L’impossibilità di leggere l’ebraico crea un velo di incomprensione su tutta la comunicazione visiva, e necessariamente cela agli occhi degli stranieri parte della complessità sottostante.
  • Ci sono imponenti realizzazioni culturali, come il teatro Habima.
  • Ci sono luci, colori, odori e sapori tipicamente mediterranei, e per noi italiani è facile sentirsi a casa.
  • Ci sono gatti dai musi allungati, quasi egizi.
  • C’è una notevole mescolanza etnica, in questo simile all’Italia, anche se si vede qualche fisionomia tipica.
  • L’acqua ghiacciata con menta e limone potrebbe diventare la mia nuova bevanda preferita.



La ripresa del documentario intanto procede, ed è difficile spiegare a chi non abbia esperienza di produzione video quanto lavoro e fatica ci siano dietro. Il momento clou della giornata è stato quando abbiamo filmato Rutu impegnata a dedicare i suoi libri in una fiera del libro in piazza Rabin. E lei, che è sempre gentilissima ma di carattere introverso e riservato, di fronte ai suoi fan si è aperta in un sorriso che le ho visto in poche altre occasioni.


E avanti, che domani tocca a Gerusalemme.


lunedì 16 giugno 2014

Tel Aviv, giorno 1

Primo giorno di riprese. Hila passa a prenderci di buon mattino e ci rechiamo a casa di Rutu. Si tratta di un delizioso appartamento in uno degli edifici bianchi tipici del nostro quartiere, da fuori un po’ malmesso ma all’interno splendido e perfettamente ristrutturato. Lo spazio è organizzato intorno a una grande stanza centrale, che fa da cucina e soggiorno. Rutu mi spiega che ama l’architettura e che ha curato lei stessa la revisione degli spazi interni. Si finisce a parlare di architettura e questo mi dà lo spunto per approfondire con lei il modo in cui la rappresenta nei suoi fumetti, che vedono assegnata ai luoghi un’importanza pari a quella dei personaggi che in essi si muovono.



Poi ci si sposta in esterni, e il pomeriggio vola in un lampo. Si finisce in spiaggia, al tramonto, con Rutu che parla del suo rapporto d’amore con la sua terra in termini concreti e quotidiani che poco hanno a che fare con tutti i simboli associati a questi luoghi, che magari dall’esterno appaiono soverchianti. Semplicemente, ama questa terra perché è nata e cresciuta qui, perché qui sono la sua vita e le persone a cui vuole bene. La semplicità di questa affermazione stride con la realtà di una terra che è stata contesa per millenni per motivi essenzialmente ideologici, che hanno poco a che fare con la vita delle persone e che proprio per questo finiscono spesso per avere su di esse un impatto devastante. Imparo dalle sue parole e dalla semplice osservazione della gente quello che per tutti qui è ovvio, ovvero che un conto è l’identità ebraica, un altro quella israeliana. Ed emerge in questo scarto di percezione un’ambiguità di fondo del concetto di identità, che nel momento in cui ti rende parte di una comunità ti definisce anche agli occhi degli altri, che, a loro volta immersi nella loro e diversa identità, hanno della tua una visione inevitabilmente parziale e quasi altrettanto inevitabilmente distorta. Ma qui il discorso si farebbe complicato, e scusatemi, non ho tempo, non ha senso parlare di questo, devo andare, che cala il sole sul Mediterraneo.


Israele giorno 0, e i perché di un progetto

Dopo un viaggio della speranza durato trenta ore (partivo dalla Francia), mille chilometri in auto, duemilacinquecento in aereo, i severi controlli in ingresso complicati dalle pratiche doganali per l’importazione temporanea dell’attrezzatura per le riprese, un bagaglio perso con parte della suddetta attrezzatura, sono finalmente giunto in Israele. Sono qui per girare un documentario su Rutu Modan, autrice di graphic novel di fama internazionale. Il documentario fa parte di un progetto espositivo più ampio a lei dedicato, da tenersi nell'ambito della prossima Lucca Comics & Games.


Il problema di un’esposizione dedicata a Rutu è che lei lavora solo in digitale, per cui non esistono disegni originali da esporre. Come si affrontano situazioni del genere? La risposta generale è che, se non si può lavorare sull'opera, si lavora sull'autore. La risposta particolare è meno semplice e può variare caso per caso.
Nel caso di Rutu il progetto espositivo è incentrato sul tema dell’identità, personale e collettiva, che a sua volta è al centro della sua opera. E se questo è il taglio, il documentario diventa uno strumento quasi indispensabile per entrare nel mondo di Rutu, per comprendere dall'interno le ragioni di una poetica. L’esplorazione dell’identità di Rutu, in quanto persona e artista, diventa necessariamente anche un’esplorazione dell’identità ebraica.

Il tema dell’identità mi intriga molto, a partire dalle continue riflessioni sulla mia identità personale. L’identità è quella serie di caratteri fisici, personali, sociali, culturali, che presi nel loro insieme costituiscono l’immagine che abbiamo di noi stessi. È un concetto a più strati, come una cipolla. C’è la mia identità strettamente personale, che qui e ora corrisponde al mio aspetto fisico attuale, alla mia età, alla storia personalissima che dalla nascita mi ha portato fin qui – le persone che ho incontrato, le cose che ho visto, le esperienze che ho vissuto; tutte cose che magari ho condiviso con altri, ma che nel loro insieme sono solo ed esclusivamente mie. Poi ci sono tutti gli altri strati, quelli che condividiamo con comunità via via più allargate, che proprio su di essi trovano la loro definizione.

Anche l’identità ebraica mi intriga molto. A Lucca non c’è una comunità ebraica organizzata, e non ho nessuno di quella comunità fra le mie conoscenze più strette, per cui parto armato solo da forte curiosità e da assunzioni pronte ad essere smentite. Riflettendo sulla storia millenaria del popolo ebraico, mi riesce difficile pensare a un popolo dall'identità più forte. L’elemento peculiare mi pare la fusione fra l’aspetto etnico e quello religioso, riassunta efficacemente nel concetto di “popolo eletto”, che non mi risulta abbia analoghi al mondo. È un nesso che, da europeo razionalista che considera l’identità più un processo in divenire che non un dato di tradizione, mi appare insieme sfidante e vagamente pre-moderno. Quando i Romani invadevano un nuovo territorio lasciavano liberi i popoli sottomessi di praticare i culti locali, con l’unica eccezione che si riconoscesse la religione civile di Roma. Un compromesso accettabile per molti ma non per il popolo ebraico, che infatti nella sua storia è stato disperso e spesso perseguitato, e tuttavia è sempre rimasto fedele alla propria identità. Trovo tutto ciò ammirevole all’estremo, ma d’altro canto mi chiedo quanto sia semplice portare sulle spalle il peso di una simile tradizione. Se è vero che ognuno di noi porta con sé la sua identità così come fanno i viaggiatori con i loro bagagli, allora il popolo ebraico mi appare carico di un fardello quasi soverchiante, capace di condizionare ogni aspetto dell’esistenza. Mi chiedo come sia, specie per un artista, il confrontarsi con un’identità così forte. Se penso al solo fumetto, mi vengono in mente molti grandi autori (Will Eisner, Art Spiegelman, la stessa Rutu) che hanno messo al centro delle loro opere più personali proprio l’identità ebraica, come se essa fosse per loro un tema effettivamente imprescindibile. Dall’altra, il peso di una tale incombente identità mi pare appaia proprio in un racconto di Rutu, incentrato su un musicista frustrato che non ama la scena musicale Israeliana e i cui tentativi di fare qualcosa di diverso cadono nell'indifferenza generale. E così è felicissimo quando riceve un invito a esibirsi all'estero, salvo poi scoprire che è stato invitato da una comunità ebraica che da lui vuole solo quelle canzoni tradizionali da cui ha inutilmente cercato di fuggire.

Con in mente queste riflessioni contrastanti, arrivo dunque a Tel Aviv. Ad attenderci all'aeroporto Ben Gurion, me e i due operatori che condividono con me questa avventura, c’è Hila, ex allieva di Rutu che ci assisterà durante tutta la produzione.


La hall dell'aeroporto di Tel Aviv. In basso, un cosplay di One Piece

La prima impressione su Tel Aviv ce l’ho sulla strada che la collega all'aeroporto. A bordo della macchina di Hila, un meraviglioso fuoristrada blu tutto impolverato e dall'aria vissuta, la città che si avvicina mi ispira l’amara constatazione che il morbo globale del grattacielo ha colpito anche qui. Non ci sono ragioni per cui Israele dovesse esserne immune, né mi aspettavo di non vederne, ma sono un po’ triste ogni volta che vado in un posto nuovo e mi tocca constatare amaramente che “anche qui”. È un problema mio, ma a parte pochissime eccezioni ritengo il grattacielo più un’espressione di arroganza che una legittima espressione architettonica, e se considerata come tale di scarso valore estetico e al limite disumanizzante. 


Va molto meglio man mano che penetriamo all'interno della città. Abbiamo affittato un appartamentino vicino a dove vive Rutu, in un quartiere centrale. Ed è un bel quartiere, con basse case bianche di architettura modernista, molto verde lungo le strade, il cielo blu profondo a chiudere in alto. E su tutto una luce nitida e vibrante, a rendere il tutto di un’evidenza straordinaria. Prendiamo possesso del nostro appartamentino dalla proprietaria, una ragazza simpatica con deliziosa figlioletta al seguito. Una doccia, una rapida cena e una birra con Rutu più tardi, rientriamo e collassiamo definitivamente, il vero e agognato traguardo di questa prima giornata.


PS. Avviso ai naviganti: ho di novo problemi col telefono, non sono raggiungibile per quel canale