giovedì 9 gennaio 2014

Finale col botto: il Maid Cafè

Non faccio in tempo a rimettere piede in hotel che Nakamura-san mi ricontatta. Ci diamo appuntamento per la cena, e mi porta a un ristorante di soba, a suo dire fra i migliori di Tokyo. In effetti il posto è pieno zeppo, e ci tocca aspettare un po’ fuori. La soba, un tipo di spaghetti di grano tenero servita fredda e mangiata intinta in salsa di soia aromatizzata con spezie, è in effetti squisita. Dopo ci si sposta in un altro localino che fa dolci tradizionali, a base di riso e di fagioli rossi, ottimi anch'essi.


Poi Nakamura-san, che ci ha preso gusto, mi propone l’esperienza definitiva: il Maid Cafè. Potevo forse lasciarmi sfuggire un’occasione del genere?
L’esperienza è stata davvero surreale. Si arriva, al quinto piano di uno dei palazzi di Akihabara, e si attende il nostro turno perché il locale è pieno. Entrati, si viene presi in consegna da quella che sarà la nostra maid per tutta la serata, una morettina sorridente di età indefinibile (spero per amor di Dio che fosse almeno maggiorenne), tutta agghindata nel suo vestitino da camerierina francese, linguaggio puccettoso d’ordinanza e atteggiamenti da innocente ninfetta. Ci spiega che ci sono delle regole: niente foto, niente richieste di appuntamento, niente biglietti da visita passati alle maid. Poi ci illustra il menù, spiegando in dettaglio gli extra che lei aggiungerà per rendere speciale ogni ordinazione. Alla mia povera interprete tocca un cappuccino sulla cui schiuma la maid disegna un orsetto kawaii, con noi che, unite le mani a formare un cuore, recitiamo una filastrocca e lanciamo strali in direzione della tazza per “rendere il caffellatte più gustoso con la forza dell’amore”, o qualcosa del genere. Al collega di Nakamura-san tocca un cocktail shackerato al ritmo di un’altra filastrocca, a Nakamura-san e a me una semplice birra, che evidentemente non si presta troppo ad essere puccettizzata. Se non che il buon Nakamura-san, che ci ha preso ancora più gusto, per ma ha fatto un’ordinazione che prevede un bonus speciale: l’opportunità di una foto con la nostra maid indossando orecchie da pirla. Potevo esimermi?

Una dignità in fumo

Mentre accade tutto questo, show time! Un tizio vestito in modo discutibile è lì con gli amici per celebrare il compleanno, e viene invitato sul palco, con tutte le maid che gli cantano una canzoncina, gli regalano un dolce e una foto con tutte loro. E giù applausi.

A fine serata restano un po’ di spunti di riflessione. Razionalmente capisco che i Maid Cafè soddisfano la fantasia maschile di vedersi servito e riverito da belle ragazze in minigonna che ti trattano come fossi il loro signore e padrone, e al contempo posso capire la motivazione delle maid che, soldi a parte, possono trovare gratificanti le attenzioni di centinaia di uomini (in gran parte ragazzi, ma non solo) che sono lì per ammirarle in un contesto che è demenziale molto più che equivoco, e comunque al riparo dal rischio molestie. Ma pur capendo tutto questo, e stando tranquillamente al gioco, penso che siamo di fronte all’espressione di una differenza culturale profonda per quel che riguarda il rapporto fra i due sessi, e che una cosa del genere da noi non sarebbe possibile, se non come “curiosità proveniente dallo strano Giappone” da esibire alle fiere di fumetto. In definitiva, le maid sono una versione contemporanea delle geishe, con l’immaginario otaku al posto di danza e cerimonia del tè.

E dunque, cosa ne penso? Che più che degradante, è una turbocazzata carpiata con doppio avvitamento, una roba che se fossi in un gioco di ruolo ne usciresti con -50 punti QI. Ma in un mondo in cui tutto ha un valore economico, forse va bene così: che esista un’esperienza in cui si paga per sentirsi imbecilli, orecchie da pirla o meno. 

Back to Tokyo

Fa strano, tornare a Tokyo. Prima di tutto perché, tornando nella stessa zona e nello stesso hotel, la sensazione è un po’ quella di tornare a casa, e mai avrei detto che questa città mi avrebbe suscitato una sensazione del genere. Ma soprattutto perché, rispetto a Kyoto, Tokyo è davvero un altro mondo. A Kyoto respiri ovunque arte, tradizione e cultura, anche nei contesti apparentemente più distanti come quello della Kyoto Station. Non c’è la stessa ipertrofia di stimoli visivi che c’è a Tokyo, e anche le vie principali, quelle dello shopping di lusso, hanno un tono più dignitoso e meno sfacciato, quasi elegante. A parte i siti di interesse storico, templi, santuari, residenze e castelli, non si può dire che sia una bella città, come nessuna in Giappone. Gli edifici sono tutti moderni, come ovunque in questo Paese, e anche le periferie, che pure hanno un certo qual carattere “vissuto”, non brillano per particolare attrattiva. Anche i richiami all’immaginario nerd, pervasivi a Tokyo e non solo ad Akihabara, sono decisamente meno forti. In definitiva, da un punto di vista europeo Kyoto è quasi una città normale. Tokyo no, non è una “città normale” proprio per niente. La semplificazione di “megalopoli postmoderna” è appunto solo una semplificazione, ma non è lontana dal vero laddove con questa definizione si intenda un miscuglio di caratteri contrastanti e diversissimi fa loro, che compongono un puzzle estremamente complesso, affascinante ma spesso straniante. E parlando di aspetti stranianti, Akihabara, buco nero della sottocultura nerd, è decisamente in cima alla lista.

Il Giappone e me

Quando sono stato negli Stati Uniti, l’ho fatto perché era qualcosa che sentivo di dover fare. C’erano troppe cose in sospeso, e troppo forte era l’influenza americana per non farci i conti a viso aperto. Con il Giappone la situazione è diversa, perché la sua influenza è stata sì importante, ma più delimitata. 
Leviamoci subito il dente, che è quello dei ricordi d’infanzia e dei cartoni visti in TV. Al di là del tema, che già allora si capiva che la gran parte erano ripetitive serie d’avventura spaziale senza particolari pretese, quello che davvero è stato fondamentale è stato il linguaggio. Laddove i cartoon americani, anche i migliori, erano tristemente bloccati in statiche inquadrature frontali di stampo teatrale, i “cartoni giapponesi” erano autentici miracoli di dinamismo. C’erano inquadrature, prospettive, movimenti di macchina, uso consapevole dei piani visivi, dell’illuminazione, dei simboli. Insomma, c’era un linguaggio visivo sofisticato e, nei casi migliori (ma di questo ci se ne accorse quando si era un po’ più grandicelli) un’autentica regia. I cartoni giapponesi sono stati la prima vera lezione di cinema per me e per un’intera generazione, e questo ci è sempre stato chiaro, anche quando ce li siamo lasciati alle spalle come “roba per bambini”.

Il sospetto che non fosse tutta “roba per bambini” è arrivato più tardi, prima confusamente quando trasmisero Robotech, poi in maniera più chiara qualche anno dopo quando arrivarono i primi manga, i primi “anime” per adulti, e soprattutto le prime informazioni attendibili portate da fanzine di appassionati, che aprivano a un mondo allora sconosciuto. Erano gli anni della Granata Press, di Akira, di Baoh, di Yamato (che con Francesco Prandoni vantava di gran lunga la voce più autorevole, e difatti è finito in Production I.G), di Mangazine e via discorrendo. Cominciò un periodo di fervore e ricerca culturale, che portò alle prime scoperte di “autori” (Miyazaki su tutti, ma anche Oshii e Dezaki) e allargò il campo di indagine ad altri ambiti, in primis alla letteratura.

Sono debitore a Prandoni per la prima seria introduzione alla cultura femminile giapponese, a partire dai suoi scritti su Lady Oscar fino ad arrivare a Caro Fratello e al Genji Monogatari, che è stato una folgorazione di magnitudine enorme. Da lì a Sei Shonagon, alle altre dame di corte e ai loro diari, a Basho, e poi ai più recenti Kawabata, Mishima, Tanizaki e Oe (ma anche, su un piano più leggero ma non meno interessante, a Banana Yoshimoto) il passo è stato breve. Negli anni ho accumulato e approfondito, leggendo un po’ alla volta di storia, storia dell’arte, teatro.

Sul versante fumettistico, l’avvento del manga prometteva di ripetere l’impatto rivoluzionario che ebbero i cartoni giapponesi all’epoca, ovvero di sconvolgerne il linguaggio. "Manga" voleva dire storie lunghe con trame articolate, prevalenza dell’aspetto visivo su quello testuale, composizione della tavola libera e dinamica, inquadrature e montaggio di taglio cinematografico. Non tutte le promesse sono state mantenute, ma l’impatto sicuramente c’è stato, e quella è stata una stagione esaltante. E con Tezuka (ne cito uno per tutti) e compagnia il fumetto mondiale è oggi sicuramente molto più ricco di quanto non fosse allora.

Sul versante cinematografico, a parte la sacra triade Kurosawa-Mizoguchi-Ozu, sembrava che il Giappone non tenesse il passo dell’esplosiva cinematografia di Hong Kong, scoperta in quegli anni e prima di una serie di infatuazioni orientali che si sarebbero susseguite di lì a poco. Certo, c’erano sempre i simpatici kaiju, Godzilla su tutti, che non ero mai riuscito a prendere sul serio da ragazzino (assieme al mare magnum di supereroi live action) figuriamoci da adulto, ma che ho recuperato pian piano, riscoprendo un affetto genuino per la loro dimensione camp. Ma a parte questo, il cinema giapponese moderno mi ha dato meno di quello che mi sarei aspettato. Mi ricordo bene del fenomeno Tsukamoto, che però si è sgonfiato già al secondo film, e c'è stato poi quello Miike, i cui estremismi mi sono sempre sembrati poco più che goliardate.

Per cui, in conclusione? Arrivo a questo viaggio avendo già metabolizzato molto, e con le basi giuste per comprendere quello che sto vedendo a Kyoto, ma per il resto non sento spirare dal Giappone una gran aria di novità. Anche l’ultima sensazione, il sedicente movimento artistico del Superflat, altro non è che l’ennesima variazione sul tema di un’estetica pop di fronte a cui l’unica reazione possibile non può che essere “ancora? E basta!” - e infatti si sta sgonfiando.


L’influenza del Giappone in Occidente è ben lungi dall'essersi esaurita, ma, almeno per me, ho paura che il vento del Sol Levante si sia decisamente affievolito.

mercoledì 8 gennaio 2014

Kyoto Station

La stazione di Kyoto merita un post tutto per sé. È una struttura di vetro e acciaio, futuristica, che incarna al meglio la grandeur della Kyoto moderna. È gigantesca: incorpora un centro commerciale di undici piani, i grandi magazzini Isetan, un cinema, un hotel e chi più ne ha più ne metta. Intorno alla gigantesca hall, che fa da spazio vuoto centrale, si inerpicano a destra e sinistra delle scale mobili altissime, che poi si ricongiungono attraverso una passerella soprelevata che corre a 70 metri d’altezza, subito sotto il soffitto. Sembra davvero l’arena perfetta per un film di mostri giganti, e infatti, appena due anni dopo essere stata terminata, nel 1999 viene distrutta dalla tartarugona gigante Gamera, in uno dei più divertenti film di mostri degli anni novanta, Gamera 3. Si vede che in Giappone ricostruiscono in fretta.



Qui siamo circa a metà strada. 
La passerella sospesa è quella striscia grigia che corre in alto, lungo il soffitto

La Kyoto Tower vista dalla passerella sospesa.

martedì 7 gennaio 2014

Miyamoto-san

Ho visto il quartier generale di Nintendo, che è qui a Kyoto. Sull’azienda in sé ho ben poco da dire, ma su un signore di nome Shigeru Miyamoto un paio di cosette mi sento di doverle aggiungere:
  1. Da italiano, se un tizio avesse creato uno dei personaggi più famosi al mondo, un idraulico baffuto e, guarda caso, italiano, gli avrei tributato la massima onorificenza del mio Paese. E invece niente, anche a questo lasciamo che ci pensino i francesi.
  2. Saranno pur veri tutti i discorsi sui suoi ricordi d’infanzia passati in campagna, ma questa cosa per cui a prima vista Kyoto appare come una città normale, ma in cui, andandoli a cercare, si aprono questi templi dalla struttura labirintica che sembrano squarci in altre dimensioni, qualcosa mi ricorda. C’è decisamente un po’ di Kyoto, a Hyrule.

Il Nintendo Building (è quella specie di cubo bianco finestrato laggiù in 
fondo) visto  dalla Kyoto Station


Incontro ravvicinato

Sul treno da Kyoto a Nara, incontro questo pinocchietto al finestrino del mio vagone. Non so cosa ci faccia lì, ma ho l'impressione che voglia tornarsene a casa. Non se lo fila nessuno per tutto il viaggio, e quando si arriva al capolinea e il vagone si svuota, lo prendo e lo porto con me.


Nara

Oggi sono stato a Nara.

Nara, a circa tre quarti d’ora di treno da Kyoto, è stata la prima capitale del Giappone. In quanto tale vanta un ricco patrimonio di monumenti e opere d’arte, secondo solo a quello di Kyoto. E poiché si tratta di una piccola cittadina, tutti i siti principali si trovano a un tiro di schioppo l’uno dall'altro, all'interno di un grande parco noto come Nara-koen. Solo che, uscendo dalla stazione e avviandomi verso il parco, la prima cosa interessante che vedo non è chissà quale sito archeologico, ma un cervo che tutto tranquillo attraversa sulle strisce schivando un po’ di automobili.







Il parco di Nara è pieno di cervi. In numero di circa 1200, liberi. Avevo letto questa cosa sulla guida, ma non mi immaginavo una situazione così brada, pensavo a qualcosa di un po’ più controllato. Che so, che il parco avesse un recinto. Invece niente: cervi vaganti, cervi accovacciati, cervi che assaltano turisti, cervi per strada, cervi davanti ai negozi, cervi in branco, cervi da soli, cervi ovunque. Gli si può anche dar da mangiare degli speciali cracker fatti apposta per loro, in vendita in banchetti sparsi per tutto il parco.

Attenzione, dice il cartello: i cervi potrebbero mordervi, scalciarvi, incornarvi. 
Con tanti saluti a Bambi

Signore, ce l'hai un cracker?
No. Sei carino, ma siete peggio di un'invasione di locuste. Pussa via!

Schivando cervi e gente che fotografa cervi, mi avvicino al primo sito d’interesse. Si tratta del tempio Kofuku-ji, caratterizzato da una bella pagoda e da numerosi altri edifici, i principali dei quali però coperti da un'enorme cantiere per operazioni di restauro. Ma il motivo d’interesse principale è l’enorme patrimonio statuario conservato dal tempio, purtroppo non fotografabile. Ho visto statue meravigliose, alcune note anche a un occidentale come me, come l’inquietante Ashura, guardiano celeste ritratto come un magro giovincello dallo sguardo enigmatico, con tre facce e sei braccia (per averne un’idea, se ne parla ad esempio qui: http://www.dnp.co.jp/artscape/eng/ht/0905.html).





Si prosegue e si incontra il gigantesco Todai-ji, la più grande struttura in legno del mondo. Difficile trasmettere quanto sia grande da una foto, ma garantisco che è davvero impressionante. E parlando di dimensioni record, al suo interno ospita la più grande statua di bronzo al mondo, un gigantesco Budda assiso. Mi avvicino che è in corso una funzione, ma si può comunque entrare e fotografare. 




Il tempio è talmente grande che potresti far confusione da un lato senza che si senta nulla dall’altro, ed in effetti è quel che succede: nel retro c’è un’attrazione che suscita grande ilarità, un buco in uno dei giganteschi pilastri di sostegno che, leggenda vuole, è grande quanto l’ingresso al paradiso: chi riuscirà a passare avrà la garanzia di entrare anche nell'aldilà. La foto è mossa, ma quello che viene estratto a forza è un tranquillo padre di famiglia.


Continuando il giro si arriva al Kasuga Taisha, santuario scintoista caratterizzato dal numero enorme (circa 2000) di lampade di pietra presenti al suo ingresso. Un’altra leggenda racconta che una delle divinità ospitate nel santuario arrivò volando a cavallo di un cervo bianco, ed è per questo che qui a Nara i cervi sono animali sacri, e vagano liberi come le vacche in India.




Tornando indietro faccio un giro nella città vecchia, una zona che è stata preservata intatta senza alcun intervento edilizio moderno. È un dedalo di stradette pieno di negozietti e deliziose casette, fonte di infiniti scorci suggestivi.



lunedì 6 gennaio 2014

I templi di Kyoto, parte 2

Altra giornata fredda, altri innumerevoli chilometri percorsi a piedi. E ancora templi.

Si comincia con il Ginkaku-ji, il Padiglione d’argento, così chiamato perché, analogamente al già visto Padiglione d’oro, il suo costruttore, lo Shogun Yoshimasa Ashikaga, pare volesse ricoprirlo d’argento. Così non è stato, e meno male, che la sua bellezza sta proprio nella sua semplicità. Anche questo è nato come villa residenziale, ed è forse la più bella fra quelle viste finora. Attorno al padiglione e agli altri edifici del complesso uno splendido parco si inerpica sulle colline circostanti, regalando vedute mozzafiato. Anche qui c’è un giardino di pietra, meno spirituale di quello al Ryoan-ji ma ugualmente notevole, tutto giocato sulla sabbia, composta in un mirabile terrazzamento geometrico sul quale svetta il Kogetsudai, un perfetto tronco di cono che simboleggia il monte Fuji. Il tutto era pensato per riflettere i raggi della luna.





Si passa poi allo Heian-jingu, santuario scintoista dedicato al primo e all'ultimo imperatore che hanno regnato a Kyoto. Il santuario, relativamente recente, è una replica ottocentesca del palazzo imperiale Heian, quello di Genji, ed è in stile cinese, come si nota dall'uso del colore e dalla generale maggior pesantezza dell’insieme. La vera attrattiva qui sono i bellissimi giardini, anch'essi in stile Heian (il che vuol dire, rispetto alla raffinatissima fusione dei successivi templi zen, di una bellezza un po’ più tradizionale), con un meraviglioso ponte di legno in stile giapponese su uno dei laghetti. Anche d’inverno sono splendidi, ma dicono che siano bellissimi durante la fioritura dei ciliegi, ad aprile.






Questo è il Nanzen-ji, fin qui il tempio dall'aria più ufficiale. E ne ha ben donde, visto che era il tempio principale della setta buddista Rinzai, una delle più potenti. Il complesso si apre con un monumentale portale e presenta edifici di grande impatto scenografico. All'interno vengono fatti visitare i quartieri dell’abate, con dei capolavori di pittura cinquecenteschi sulle porte di carta scorrevoli di tutte le stanze interne (purtroppo non fotografabili) e un bel giardino di pietra, forse il migliore che ho visto dopo quello del Rioan-ji.







E per finire il Kiyomizu-dera, uno dei più famosi in assoluto (sono anche sicuro di averlo visto in qualche film) e meta prediletta dai turisti. Dopo una pittoresca stradina piena di bancarelle si arriva all'ingresso del tempio, che si presenta con un paio di edifici in stile cinese. Ma la vera attrattiva è dopo, un padiglione sospeso sulla collina che si regge su una fitta impalcatura, una soluzione architettonica e strutturale arditissima. Da lì si gode di uno splendido panorama su tutta la piana di Kyoto. Continuando il giro, si arriva a tre fontane, che leggenda vuole possono garantire a chi ne beve una fra queste tre cose: bellezza, saggezza o lunga vita. Vedremo quale sarà toccata a me.






domenica 5 gennaio 2014

I templi di Kyoto

Oggi sono andato per templi.

Chiariamo subito una cosa. I templi giapponesi non sono singoli edifici, tipo le nostre chiese. Sono composti da più edifici con varie destinazioni, residenziali, di servizio e di culto. Sono dei conventi, ma diversi dai nostri che per quanto articolati al loro interno sono pur sempre dei complessi unitari. Possono presentarsi a volte come un insieme di ville sparse in un grande parco, a volte come veri e propri quartieri, a volte come cittadelle. La loro importanza non è mai stata solo religiosa, ma anche politica e militare, come prova la storia turbolenta di molti di essi, rasi al suolo e ricostruiti più volte. La loro architettura non differisce da quella civile, nel senso che nessun edificio è riconoscibile dall'esterno per quella che è la sua funzione, e molti templi sono effettivamente partiti da ville residenziali poi trasformate per volontà dei loro signori.

Per quanto sia a conoscenza dei principi fondamentali, il mio interesse primario nell'avvicinarmi ai templi di Kyoto non è quello religioso. Per quanto conosca anche i fatti storici principali che hanno visto protagonista questa città, neanche questo è l’aspetto fondamentale. Entrambi aiutano, ed anzi sono propedeutici per quella che è la mia vera motivazione, essenzialmente estetica e artistica. L’architettura giapponese deriva da quella cinese, ma rispetto a questa ha aggiunto dei tratti autoctoni inconfondibili, che la rendono modernissima e in grado di dialogare in modo fertile con il mondo contemporaneo. I principi di fondo: prevalenza della dimensione orizzontale su quella verticale, equilibrio fra linee orizzontali e verticali nell'edificio vero e proprio, equilibrio fra le linee rette del corpo di fabbrica e linee curve del tetto sovrastante, studiata asimmetria nella disposizione degli edifici, studiata integrazione con l’ambiente naturale, in un processo estremamente raffinato, insieme estetico, intellettuale e spirituale.
Sono più o meno le lezioni che ne ha tratto Frank Lloyd Wright, applicate in tutte le sue case a partire da quella meravigliosa “Casa sulla cascata” che ho visto in Pennsylvenia. Venire qui e vedere di persona è come chiudere un cerchio.

La prima stazione è una delle più famose: il Kinkaku-ji, o Padiglione d’Oro, che ho imparato a conoscere nell'omonimo, splendido romanzo di Yukio Mishima. Era una villa residenziale, ed il nome deriva dal fatto che tutto l’edificio è ricoperto da foglia d’oro. Peccato che il cielo fosse nuvoloso, perché sotto il sole lo spettacolo dovrebbe essere davvero abbagliante.



Si passa poi al Ryoan-ji, che contiene il più famoso giardino di pietra zen. Essenzialmente, si tratta di una rappresentazione stilizzata della natura a base di pietre accuratamente disposte, che emergono come isole in mezzo a un mare di ghiaia finemente rastrellata. Lo scopo era quello di favorire la meditazione, ed in effetti è difficile descrivere a parole la profonda impressione suscitata da questo giardino, che emana una bellezza e una forza spirituale incomparabili.




Terzo e ultimo stop di questa fredda giornata è il Daitoku-ji, vero e proprio quartiere che comprende più di venti templi, di cui solo alcuni aperti al pubblico. Nel suo complesso, sembra lo scenario di un film di samurai, un luogo fuori dal tempo immerso nel tessuto urbano. Il Daisen-in, uno dei sottotempli visitabili, contiene un altro famoso giardino di pietra, più complesso e carico di simboli dell’altro, cosa che lo ha reso, almeno per me, meno efficace. Purtroppo al suo interno le foto erano proibite, per cui mi limito a qualche immagine più generale.