Quando sono stato negli Stati Uniti, l’ho fatto perché era
qualcosa che sentivo di dover fare. C’erano troppe cose in sospeso, e troppo
forte era l’influenza americana per non farci i conti a viso aperto. Con il
Giappone la situazione è diversa, perché la sua influenza è stata sì importante,
ma più delimitata.
Leviamoci subito il dente, che è quello dei ricordi
d’infanzia e dei cartoni visti in TV. Al di là del tema, che già allora si
capiva che la gran parte erano ripetitive serie d’avventura spaziale senza
particolari pretese, quello che davvero è stato fondamentale è stato il
linguaggio. Laddove i cartoon americani, anche i migliori, erano tristemente
bloccati in statiche inquadrature frontali di stampo teatrale, i “cartoni
giapponesi” erano autentici miracoli di dinamismo. C’erano inquadrature,
prospettive, movimenti di macchina, uso consapevole dei piani visivi,
dell’illuminazione, dei simboli. Insomma, c’era un linguaggio visivo
sofisticato e, nei casi migliori (ma di questo ci se ne accorse quando si era
un po’ più grandicelli) un’autentica regia. I cartoni giapponesi sono stati la
prima vera lezione di cinema per me e per un’intera generazione, e questo ci è
sempre stato chiaro, anche quando ce li siamo lasciati alle spalle come “roba
per bambini”.
Il sospetto che non fosse tutta “roba per bambini” è
arrivato più tardi, prima confusamente quando trasmisero Robotech, poi in
maniera più chiara qualche anno dopo quando arrivarono i primi manga, i primi
“anime” per adulti, e soprattutto le prime informazioni attendibili portate da
fanzine di appassionati, che aprivano a un mondo allora sconosciuto. Erano gli
anni della Granata Press, di Akira, di Baoh, di Yamato (che con Francesco
Prandoni vantava di gran lunga la voce più autorevole, e difatti è finito in Production
I.G), di Mangazine e via discorrendo. Cominciò un periodo di fervore e ricerca
culturale, che portò alle prime scoperte di “autori” (Miyazaki su tutti, ma
anche Oshii e Dezaki) e allargò il campo di indagine ad altri ambiti, in primis
alla letteratura.
Sono debitore a Prandoni per la prima seria introduzione
alla cultura femminile giapponese, a partire dai suoi scritti su Lady Oscar
fino ad arrivare a Caro Fratello e al Genji Monogatari, che è stato una
folgorazione di magnitudine enorme. Da lì a Sei Shonagon, alle altre dame di
corte e ai loro diari, a Basho, e poi ai più recenti Kawabata, Mishima,
Tanizaki e Oe (ma anche, su un piano più leggero ma non meno interessante, a
Banana Yoshimoto) il passo è stato breve. Negli anni ho accumulato e
approfondito, leggendo un po’ alla volta di storia, storia dell’arte, teatro.
Sul versante fumettistico, l’avvento del manga prometteva di
ripetere l’impatto rivoluzionario che ebbero i cartoni giapponesi all’epoca,
ovvero di sconvolgerne il linguaggio. "Manga" voleva dire storie lunghe con trame
articolate, prevalenza dell’aspetto visivo su quello testuale, composizione
della tavola libera e dinamica, inquadrature e montaggio di taglio
cinematografico. Non tutte le promesse sono state mantenute, ma l’impatto
sicuramente c’è stato, e quella è stata una stagione esaltante. E con Tezuka
(ne cito uno per tutti) e compagnia il fumetto mondiale è oggi sicuramente
molto più ricco di quanto non fosse allora.
Sul versante cinematografico, a parte la sacra triade
Kurosawa-Mizoguchi-Ozu, sembrava che il Giappone non tenesse il passo
dell’esplosiva cinematografia di Hong Kong, scoperta in quegli anni e prima di
una serie di infatuazioni orientali che si sarebbero susseguite di lì a poco.
Certo, c’erano sempre i simpatici kaiju, Godzilla su tutti, che non ero mai
riuscito a prendere sul serio da ragazzino (assieme al mare magnum di supereroi
live action) figuriamoci da adulto, ma che ho recuperato pian piano,
riscoprendo un affetto genuino per la loro dimensione camp. Ma a parte
questo, il cinema giapponese moderno mi ha dato meno di quello che mi sarei
aspettato. Mi ricordo bene del fenomeno Tsukamoto, che però si è sgonfiato già al
secondo film, e c'è stato poi quello Miike, i cui estremismi mi sono sempre sembrati poco
più che goliardate.
Per cui, in conclusione? Arrivo a questo viaggio avendo già
metabolizzato molto, e con le basi giuste per comprendere quello che sto
vedendo a Kyoto, ma per il resto non sento spirare dal Giappone una gran aria
di novità. Anche l’ultima sensazione, il sedicente movimento artistico del
Superflat, altro non è che l’ennesima variazione sul tema di un’estetica pop di
fronte a cui l’unica reazione possibile non può che essere “ancora? E basta!” - e infatti si sta sgonfiando.
L’influenza del Giappone in Occidente è ben lungi
dall'essersi esaurita, ma, almeno per me, ho paura che il vento del Sol Levante
si sia decisamente affievolito.
Molto competente!
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