Il Comic Market si è rivelato un’esperienza estremamente
interessante. Non la manifestazione in sé, che a parte le dimensioni ciclopiche
non ha nulla di particolarmente rilevante, ma proprio il fenomeno che ne sta
alla base, ovvero le “doujinshi”. Sono sia le dimensioni che la natura del
fenomeno a impressionare. Praticamente, decine di migliaia di gruppi creano le
loro fanzine, e poi vengono qui a proporle a un pubblico di oltre mezzo milione
di persone. E non si tratta solo di fumetti: c’è di tutto, dai romanzi ai
trattati di giardinaggio, dai videogiochi ai CD musicali, dai gadget ai
photobook, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di un gigantesco fenomeno di
autoespressione dal basso, e il manga è forse solo il mezzo più accessibile, ma
non certamente l’unico. Secondo un professore dell’università Meiji di cui non
ricordo il nome, ma con cui ho avuto il piacere di intrattenere un’interessante
conversazione a cena, si tratta di un segno dei tempi. Secondo lui, viviamo in
un’epoca in cui i contenuti non calano più dall'alto, dal creatore-artista al
suo pubblico, ma piuttosto emergono dal basso, dal pubblico stesso che si fa
autore, come accadeva nel mito e in altre forme di espressione autenticamente
popolare. Si tratta di un fenomeno tipicamente giapponese, e il prof cita
esempi di quelle che oggi chiameremmo fanzine risalenti addirittura al periodo
Edo. Sul perché di questo gigantesco fenomeno che non ha uguali al mondo,
vengono in mente generalizzazioni sociologiche che probabilmente lasciano il
tempo che trovano, come quella che si tratti del contraltare di una società per
altri versi estremamente regolata e in cui i rapporti sociali sono basati sul
confuciano principio d’autorità.
È anche vero, come afferma il professore, che quella che
emerge dall’insieme di queste produzioni è una rappresentazione fedele dei
bisogni e desideri della società nel suo complesso. In effetti girando per i
banchi del Comic Market è difficile scrollarsi di dosso l’impressione che si
tratti di un fenomeno sociale prima che creativo o artistico. In questo senso
il paragone con realtà come la nostra Self Area rischia di essere estremamente
fuorviante. Laddove le nostre autoproduzioni sono una pratica
artistico-produttiva che nasce sì in alternativa a un sistema editoriale mainstream,
ma puntando sostanzialmente allo stesso obiettivo, qui l’impressione è che il
processo conti più del risultato finale.
Di sicuro, questa rappresentazione dei bisogni collettivi parte
da un grado zero che è il sesso. La sessualizzazione del Comic Market è elevatissima
ed equamente divisa fra i due sessi, e quest’ultimo aspetto non fa che confermare
quello spunto vagamente polemico nei confronti di certe posizioni femministe
che avevo già espresso negli incontri che ho tenuto sull'identità di genere.
Chiacchierando
con gli organizzatori, mi hanno spiegato come il primo giorno sia
principalmente dedicato alle ragazze, con una massiccia presenza di yaoiste, il
secondo sia un po’ una via di mezzo mentre il terzo sia dedicato principalmente
ai maschi. A maggior ragione allora mi dispiace non aver potuto assistere al
primo giorno, che sicuramente avrebbe fornito spunti interessanti, e di aver
avuto poco tempo il secondo. Il terzo giorno era effettivamente pieno di
doujinshi erotiche, vuoi parodie che originali. Il pubblico era in netta
prevalenza maschile, ma c’erano comunque parecchie ragazze, e assai di più se
si considera chi stava dietro i banchi, comprese anche un folto gruppo di
cosplayer che proponeva i propri album fotografici sexy. La morale sessuale dei
giapponesi è estremamente meno repressiva della nostra, ma è stato comunque interessante
trovarsi in un evento a così alta partecipazione di pubblico, in gran parte
giovane e che brillava per la sua normalità, in cui era comunemente accettato,
ed anzi dato per scontato, il fatto che entrambi i sessi abbiano fantasie
esplicite e fortemente caratterizzate (si legga alla voce "stereotipi") sul sesso opposto.
Uno potrebbe chiedersi se davvero ci sia così tanto bisogno dell’ennesimo
fumetto porno, ma sarebbe la domanda sbagliata: perché è ovvio che, al di là
dei contenuti, quello che è importante è la condivisione di un’esperienza di
creazione dal basso che unisce autori e pubblico in un’unica comunità. Le
parodie erotiche sono un caso esemplare, perché rappresentano un fenomeno di appropriazione
dei personaggi da parte del pubblico, che su essi costruisce fantasie condivise
che hanno senso solo all'interno della comunità dei fan.
Inquadrandolo in un contesto più generale, è chiaro che un
fenomeno di tali enormi dimensioni è il combustibile su cui si nutre un
sistema-fumetto il cui motore è un’industria editoriale estremamente aggressiva
(sia sul fronte del pubblico che su quello degli autori) e il cui albero di
trasmissione è un sistema di copyright “creator-owned” che porta alla rotazione
continua di contenuti e autori, che emergono spesso proprio dalle file dei
fanzinari.
È facile immaginare come dei professionisti possano emergere
dagli appassionati che affollano il Comic Market per andare ad affollare le
fila di autori e autrici che si cimentano nei generi più affini alle comunità
di provenienza (porno e yaoi da un lato, shonen e shojo dall’altro), difficile
dire se un autore più sofisticato possa emergere da questo contesto o non piuttosto
in opposizione ad esso. Perché se da una parte sono d’accordo col professore
quando dice che le doujinshi rappresentano una forma di cultura popolare che
esprime bisogni sociali collettivi, dall'altra l’immaginario che ho visto al
Comic Market partiva sì dal basso, ma non è chiaro quanto in alto arrivasse.
Probabilmente non molto.
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