giovedì 21 agosto 2014

Seul giorno 8, e sull'architettura

Il palazzo reale Changdeokgung col suo Giardino Segreto, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, è una meraviglia. Vasto, sapientemente asimmetrico, a tratti labirintico, pieno di padiglioncini e angoli suggestivi nascosti nei recessi del bosco dietro il palazzo, è l’esempio migliore viso finora di palazzo imperiale in stile che definirei giapponese, se non fosse con questo fare un torto ai coreani e al fatto che in Giappone di palazzi così non ce ne sono. Col sole dovrebbe essere meraviglioso, ma anche sotto una pioggerella impalpabile e un cielo brumoso, il verde del tempio si fonde a perfezione con l’atmosfera scura dei boschi, con effetti di rara suggestione. 






Meno bello ma ugualmente interessante il vicino palazzo Deoksugung, protagonista di un autentico cortocircuito storico-artistico nel momento in cui accanto al padiglione reale vedo un edificio in stile greco, costruito dai giapponesi durante l’occupazione e progettato da un architetto britannico.





E poi Bukchon, angolo di Seoul rimasto fermo agli anni settanta e preservato nel suo stato originale come memoria storica, con tutte le sue meravigliose case in stile tradizionale. È come un villaggio chiuso nel cuore di Seoul, e il contrasto lo rende infinitamente suggestivo.




Ora, il contrasto fra Bukchon e i palazzi Joseon, da una parte, e la città moderna che li circonda, dall'altra, è eclatante. Seul è una città gigantesca, ma al di là delle dimensioni è un tipico esempio di quella cultura urbana che è diventata lo standard globale. In un’economia capitalistica, in cui viene incentivata l’iniziativa privata di individui e gruppi (le aziende), è probabilmente inevitabile che si arrivi a questo punto, a un punto cioè in cui a una cultura architettonica elitaria si sostituisce una cultura che non ha altri criteri che non l’imponenza fine a se stessa; o meglio, tesa a testimoniare in forme comprensibili a tutti, e dunque ridotte al minimo comune denominatore della dimensione intesa come misura quantitativa, il successo economico della committenza. Nelle città contemporanee, devo tristemente constatare la sostanziale sconfitta all'architettura. Certo, ci sono e ci saranno sempre dei begli edifici, ma nel loro complesso le città globali si assomigliano tutte e sono brutte nella migliore delle ipotesi, inumane nelle peggiori. L’Europa e l’Italia in qualche modo resistono, ma solo perché hanno centri storici che non permettono a questa architettura di mera propaganda di fare quello che vuole. 


Begli scorci

Intendiamoci, non sto affatto criticando il capitalismo in quanto tale. Evviva la libertà e la libera iniziativa. È che nella cultura di massa e nella comunicazione globale, che di quel capitalismo sono espressione finale, un’arte elitaria come l’architettura non è più a suo agio, con danni non tanto per una ristretta cerchia di amatori, ma per tutti. Oriente e Occidente hanno sviluppato due diverse sensibilità di bello architettonico, una più integrata con la natura, l’altra più propriamente urbana. Ma entrambi i modelli sembrano in crisi, inutili e impraticabili nelle megalopoli di oggi. E dunque che fare? Da una parte occorrerebbe cultura, una committenza e un’architettura più avvedute. Dall'altra le istituzioni pubbliche dovrebbero farsi carico anche della dimensione del bello, così negletta dall'architettura prevalente, pedissequamente al servizio del sistema. E dovrebbero ugualmente farsi carico della funzione del simbolo, che rischia tristemente di sparire dall'orizzonte urbano. Non si tratta di opporsi alla modernità in nome della conservazione, ma di spingere per nuova architettura che risponda a diversi valori, etici ed estetici. L’architettura è forma e volume, ma soprattutto spazio vitale. E la commensurabilità fra uomo e l’architettura in cui vive è un valore che va al di là degli stili. Frank Lloyd Wright e tanti altri l’avevano capito, ma oggi pare non importare più a nessuno.

Bella merda

Mentre rifletto su queste cose rientro in hotel, e come beffa che si aggiunge al danno, becco in TV uno dei soliti documentari americani, di quelli che se non spettacolarizzano il loro oggetto non sanno cosa fare nella vita. Si parla, guarda caso, di mega costruzioni. E si sostiene che l’uomo ha sempre aspirato alle grandi costruzioni (vero), e che ora possiamo farne di ancora più grandi (vero), e che tutto ciò è meraviglioso come le magnifiche sorti e progressive. Ma vaffanculo, va.

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