E così sono arrivato in Corea. Uscito dall'aeroporto di
Incheon – bello, moderno, asettico e uguale a infiniti altri – trovo ad
aspettarmi il mio interprete in inglese, Jin detto Gino. E trovo un tempo
nebbioso, grigio, afoso ma non insopportabile. Mi dice Gino che non è smog, ma
nebbia di caldo portata dal mare, e inevitabilmente mi viene in mente la baia
di San Francisco. Gino mi accompagna all'hotel, e già da quel che vedo in
strada l’andazzo è chiaro: macchine nuove e ben tenute, con ampia percentuale
di Kia e Hyundai e anche con qualche marchio che non conosco.
Arriviamo a Bucheon, dove ha sede il festival, una cittadina
satellite di Seoul, e mi fa un’impressione strana. Da una parte vale anche qui
la logica giapponese, secondo cui i palazzi sono superfici vuote da riempire di
segni. Dall'altro, uscendo dalla strada principale tutto assume di colpo un
aspetto più popolare, con gente impegnata su grigliate di carne cotte sul
momento su una griglia a centrotavola e localini dall'apparenza anche
abbastanza dubbia.
E all'improvviso salta fuori addirittura questo:
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