A Istanbul c’è molto, ma per uscire dai normali circuiti
turistici (in definitiva concentrati su un’unica piazza e i monumenti che vi si
affacciano) basta veramente pochissimo. Già Santa Irene non se la fila nessuno,
che pure è dentro la prima cinta del Topkapi. Col suo paramento in mattoni, è
la chiesa che più mi ha ricordato il bizantino ravennate. Peccato che dentro
sia vuota, addirittura alla mercé dei piccioni.
La moschea di Soqollu Mehmet Pascià, un altro dei gioielli
di Sinan, è ancora più estranea al flusso turistico, e per questo molto più
autentica: nessuna insegna in inglese, nessuna attenzione ai turisti, solo una piccola
ma bellissima moschea vissuta dai suoi fedeli, primi fra tutti i ragazzi della
madrasa abbinata all’edificio. Arrivo proprio mentre il muezzin richiama alla
preghiera, e i ragazzi insieme agli altri fedeli entrano lasciando le scarpe
all’esterno. Mi permetto una veloce sbirciatina, il tempo per apprezzare lo splendido
interno e osservarli mentre, guidati dall’imam, pregano tutti in fila di fronte
al mihrab.
Un’altra moschea lì vicino è la piccola Santa Sofia, anch’essa,
come l’omonima sorella maggiore, una chiesa convertita in moschea. La trovo
praticamente deserta, il che la rende ancora più suggestiva.
Il vero pezzo forte è la moschea di Rustem Pascià, ancora di
Sinan. È accanto al bazar delle spezie, ed è sopraelevata, costruita sopra un
piano terra occupato da botteghe e viuzze. Le vie d’accesso sono strette
scalinate che si aprono all’improvviso nel bazar sottostante, e la sorpresa è
grande quando si scopre che sopra un quartiere animato e popolare si apra uno
spazio così raffinato. Fra le moschee di Sinan, questa è quella con il maggior
uso delle maioliche realizzate nella città turca di Iznik, all’epoca all’apice
della loro produzione. Sono talmente belle che all’uscita mi compro volentieri
un libro a loro dedicato.
Preso il tram e poi la funicolare, si passa il ponte di
Galata e si arriva a piazza Taksim, cuore della Istanbul moderna. La piazza di
per sé non è gran che, ma da lì parte Istikal Caddesi, la principale via commerciale
di Istanbul, che è tutta un’altra storia. Animata da una fiumana ininterrotta
di gente, soprattutto giovani, la via è pedonale e percorsa solo da un tram
storico che fa avanti e indietro, la cui natura di attrazione è svelata già
dalle dimensioni del suo minuscolo vagone, vista la sproporzione fra i
passeggeri che può portare e l’immane folla fra cui si fa faticosamente largo. Circa
a metà della lunga strada c’è una buffissima chiesa cattolica, costruita nel
primo novecento in stile finto romanico-gotico-laqualunque, che esibisce sia
dentro che fuori una natività attorniata da una selva di alberi di natale (!).
La sera è la vota dei dervisci rotanti, mistici sufi che si
avvicinano a Dio attraverso musica e danza. Per quanto si tratti a tutti gli
effetti di una cerimonia religiosa, la loro performance è salvaguardata dall’UNESCO
come patrimonio dell’umanità, per cui è possibile assistere in contesti
selezionati: biglietto salato, poco pubblico, niente foto né applausi. La suggestione
della cerimonia è indescrivibile: i dervisci ruotano come all’infinito, apparentemente
senza sforzo, in un percorso a tappe che simboleggia la natura ciclica dell’universo
e il percorso dell’anima alla ricerca di Dio.
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