domenica 11 gennaio 2015

Istanbul, giorno 1

A differenza di altre volte, quello a Istanbul è un viaggio che ho pianificato molto poco. La spinta principale è stata la necessità quasi fisica di sottopormi a un flusso di impressioni diverse, di cui sentivo fortemente il bisogno dopo gli sforzi lavorativi autunnali. Per staccare davvero sentivo che non bastava il riposo, occorreva una buona dose di “altro”. Istanbul mi è sembrata subito la meta ideale: ho gli strumenti storico-culturali per capire quello che avrei visto, ho una motivazione specifica legata all’opera di Sinan, ho la voglia di confrontarmi con un vero paese islamico, per quanto decisamente europeizzato.

Con un po’ di ritardo, il viaggio vola via liscio. Ad attendermi in aeroporto trovo lo shuttle dell’hotel, che mi porta a destinazione. La strada fino all’hotel mi racconta di una città moderna, illuminata, viva. L’albergo è in pieno Sulthanamet, il quartiere storico di Istanbul, con tutti i principali luoghi di interesse a due passi e, giocoforza, pieno di turisti. Pazienza.
Una prima rapida occhiata alle pittoresche viuzze intorno all’hotel e, con la cena mangiata in aereo ancora sullo stomaco, me ne vado a letto.



Il primo giorno lo dedico a guardarmi intorno. Passeggiando arrivo in pochi minuti a Santa Sofia, che si apre su una grande piazza in fondo alla quale si staglia l’imponente moschea Blu. Accanto, una piazza ancora più grande, vestigia del vecchio ippodromo di Costantinopoli, con ancora al loro posto i monumenti che ne decoravano la “spina” centrale: un obelisco egizio, un altro in pietra costruito da Giustiniano, la famosa “colonna serpentina” portata qui dal santuario di Apollo a Delfi. Da qui provengono anche i cavalli di bronzo che fanno bella mostra di sé a Venezia, sulla facciata di San Marco.

La piazza è sempre animata, e nella folla si vede di tutto. Soprattutto per quel che riguarda le donne: ci sono quelle vestite all’occidentale, quelle con solo il velo, quelle che al velo abbinano un vestito lungo, elegante e spesso colorato, quelle vestite come le precedenti ma di colori più sobri, quelle col niqab nero che lascia visibili solo gli occhi. Ma poiché qui è tutto un brulicare di turisti, è ancora presto per tirare conclusioni.





Da fuori Santa Sofia è un ammasso di volumi invero un po’ disorganico, a causa di aggiunte successive che nei secoli sono servite a sostenerla ma che l’hanno anche rivestita e nascosta, proprio come gli abiti lunghi per le donne religiose. Dentro, invece, trasmette un fortissimo senso di unità ed armonia. Non è a pianta centrale ma lo sembra, dominata com’è dalla cupola centrale che fa non solo da chiave di volta, come accade anche in molte chiese occidentali, ma da vero e proprio principio ispiratore dello spazio, nel senso che è il culmine di una serie di spazi ascendenti (semicupole, absidi, pennacchi etc.) tutti basati sulla linea curva e sulla superficie sferica. Santa Sofia è come un aggregato di bolle cresciute l’una sull’altra fin quasi a formare una massa compatta, e questa rimane la cifra di tutta l’architettura Ottomana su essa modellata.




A rompere la simmetria centrale ci sono tuttavia le navate e l’abside col bel mosaico della Madonna. È chiaro che si tratta di una chiesa, con gli interventi per trasformarla in moschea palesemente posticci: il mihrab disassato rispetto all’edificio, gli enormi tondi calligrafici appesi come elementi decorativi che risaltano più in quanto corpi estranei che per la oro forza intrinseca.
In definitiva, non è possibile nascondere l’ammirazione per un edificio che è stato a lungo la più grande e augusta chiesa della cristianità, ma soprattutto che ha influenzato profondamente molta architettura successiva, da San Marco a Venezia a tutta l’architettura ottomana propriamente detta, a partire proprio da Sinan, che con essa si è costantemente confrontato.



La seconda tappa è, inevitabilmente, la moschea blu. Dall’esterno l’adesione al modello di Santa Sofia e insieme il tentativo di superarla, fosse solo per la posizione, sono evidenti. Ma per quanto la massa imponente della moschea chiuda la piazza con bell’equilibrio, l’ingresso dalla parte dell’ippodromo risulta pesante e non memorabile. Dentro ci si trova di fronte a una grande aula a pianta centrale sostenuta da quattro poderosi pilastri, completamente ricoperta da migliaia di piastrelle in ceramica policroma, con netta prevalenza del blu, da cui il nome. Indubbiamente suggestivo, non c’è che dire, ma anche qui forse un po’ eccessivo.

Essendo questa una moschea in uso, è possibile visitarla solo quando non è in corso la preghiera. Si entra scalzi, portandosi dietro le scarpe in un sacchetto di plastica o al più posandole in appositi scaffali. Se da una parte mi è molto piaciuto vedere una moschea attiva e un islam “normale” lontano anni luce dagli estremismi di cui si parla continuamente in TV, dall’altra il fatto che le donne siano relegate a un “recinto” apposta per loro mi ha dato da pensare. Come ulteriore sorpresa, all’uscita c’era anche una distribuzione di dolci (squisiti) e regalavano dei Corani in svariate lingue: l’italiano non c’era, l’ho preso in inglese.



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