A differenza di altre volte, quello a Istanbul è un viaggio
che ho pianificato molto poco. La spinta principale è stata la necessità quasi fisica
di sottopormi a un flusso di impressioni diverse, di cui sentivo fortemente il
bisogno dopo gli sforzi lavorativi autunnali. Per staccare davvero sentivo che non
bastava il riposo, occorreva una buona dose di “altro”. Istanbul mi è sembrata
subito la meta ideale: ho gli strumenti storico-culturali per capire quello che
avrei visto, ho una motivazione specifica legata all’opera di Sinan, ho la voglia
di confrontarmi con un vero paese islamico, per quanto decisamente europeizzato.
Con un po’ di ritardo, il viaggio vola via liscio. Ad
attendermi in aeroporto trovo lo shuttle dell’hotel, che mi porta a
destinazione. La strada fino all’hotel mi racconta di una città moderna,
illuminata, viva. L’albergo è in pieno Sulthanamet, il quartiere storico di
Istanbul, con tutti i principali luoghi di interesse a due passi e, giocoforza,
pieno di turisti. Pazienza.
Una prima rapida occhiata alle pittoresche viuzze intorno
all’hotel e, con la cena mangiata in aereo ancora sullo stomaco, me ne vado a
letto.
Il primo giorno lo dedico a guardarmi intorno. Passeggiando arrivo
in pochi minuti a Santa Sofia, che si apre su una grande piazza in fondo alla
quale si staglia l’imponente moschea Blu. Accanto, una piazza ancora più grande,
vestigia del vecchio ippodromo di Costantinopoli, con ancora al loro posto i
monumenti che ne decoravano la “spina” centrale: un obelisco egizio, un altro in
pietra costruito da Giustiniano, la famosa “colonna serpentina” portata qui dal
santuario di Apollo a Delfi. Da qui provengono anche i cavalli di bronzo che fanno
bella mostra di sé a Venezia, sulla facciata di San Marco.
La piazza è sempre animata, e nella folla si vede di tutto.
Soprattutto per quel che riguarda le donne: ci sono quelle vestite all’occidentale,
quelle con solo il velo, quelle che al velo abbinano un vestito lungo, elegante
e spesso colorato, quelle vestite come le precedenti ma di colori più sobri, quelle
col niqab nero che lascia visibili solo gli occhi. Ma poiché qui è tutto un
brulicare di turisti, è ancora presto per tirare conclusioni.
Da fuori Santa Sofia è un ammasso di volumi invero un po’
disorganico, a causa di aggiunte successive che nei secoli sono servite a
sostenerla ma che l’hanno anche rivestita e nascosta, proprio come gli abiti
lunghi per le donne religiose. Dentro, invece, trasmette un fortissimo senso di
unità ed armonia. Non è a pianta centrale ma lo sembra, dominata com’è dalla
cupola centrale che fa non solo da chiave di volta, come accade anche in molte
chiese occidentali, ma da vero e proprio principio ispiratore dello spazio, nel
senso che è il culmine di una serie di spazi ascendenti (semicupole, absidi,
pennacchi etc.) tutti basati sulla linea curva e sulla superficie sferica. Santa
Sofia è come un aggregato di bolle cresciute l’una sull’altra fin quasi a
formare una massa compatta, e questa rimane la cifra di tutta l’architettura
Ottomana su essa modellata.
A rompere la simmetria centrale ci sono tuttavia le navate e
l’abside col bel mosaico della Madonna. È chiaro che si tratta di una chiesa,
con gli interventi per trasformarla in moschea palesemente posticci: il mihrab
disassato rispetto all’edificio, gli enormi tondi calligrafici appesi come
elementi decorativi che risaltano più in quanto corpi estranei che per la oro
forza intrinseca.
In definitiva, non è possibile nascondere l’ammirazione per
un edificio che è stato a lungo la più grande e augusta chiesa della
cristianità, ma soprattutto che ha influenzato profondamente molta architettura
successiva, da San Marco a Venezia a tutta l’architettura ottomana propriamente
detta, a partire proprio da Sinan, che con essa si è costantemente confrontato.
La seconda tappa è, inevitabilmente, la moschea blu. Dall’esterno
l’adesione al modello di Santa Sofia e insieme il tentativo di superarla, fosse
solo per la posizione, sono evidenti. Ma per quanto la massa imponente della
moschea chiuda la piazza con bell’equilibrio, l’ingresso dalla parte dell’ippodromo
risulta pesante e non memorabile. Dentro ci si trova di fronte a una grande
aula a pianta centrale sostenuta da quattro poderosi pilastri, completamente
ricoperta da migliaia di piastrelle in ceramica policroma, con netta prevalenza
del blu, da cui il nome. Indubbiamente suggestivo, non c’è che dire, ma anche
qui forse un po’ eccessivo.
Essendo questa una moschea in uso, è possibile visitarla solo
quando non è in corso la preghiera. Si entra scalzi, portandosi dietro le
scarpe in un sacchetto di plastica o al più posandole in appositi scaffali. Se da
una parte mi è molto piaciuto vedere una moschea attiva e un islam “normale”
lontano anni luce dagli estremismi di cui si parla continuamente in TV, dall’altra
il fatto che le donne siano relegate a un “recinto” apposta per loro mi ha dato
da pensare. Come ulteriore sorpresa, all’uscita c’era anche una distribuzione
di dolci (squisiti) e regalavano dei Corani in svariate lingue: l’italiano non
c’era, l’ho preso in inglese.
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