Finalmente il Topkapi. Non che fosse quello che più
attendevo, ma è stato interessante, forse per motivi imprevisti. Si tratta di
un grande complesso palaziale, servito per molti secoli come palazzo dei
Sultani prima che, verso la fine dell’impero, scegliessero un modello di vita -
e di conseguenza dimore - più affini allo stile occidentale. È sviluppato in una
serie di corti successive, con padiglioni ed edifici vari sparsi per tutta l’area.
Come regola generale, più si procede verso l’interno più gli spazi si fanno privati,
di esclusiva pertinenza del sovrano. Fa eccezione l’harem, disposto
lateralmente più o meno a metà percorso, dove risiedevano le concubine e la
potentissima regina madre, sorvegliate dagli eunuchi di palazzo.
Fonte perpetua
di mille suggestioni orientaliste, l’harem è interessante soprattutto per le
decorazioni interne. È tutto ricoperto di ceramiche con gli usuali arabeschi
ottomani, e alcuni ambienti sono di grande suggestione. Tuttavia, così come
tutto il palazzo, è architettonicamente disorganico, e rende bene l’idea di una
civiltà che, pur capace di grande raffinatezza, delegava le sue manifestazioni
di potenza più che altro allo sfoggio di lusso e magnificenza. In definitiva,
la cultura degli ottomani rivela le loro origini nomadi, e come già successo
altrove, la dinamica fra nomadi e stanziali prevede che i primi, laddove
prevalgano, assumono di fatto la cultura dei secondi, magari conferendogli un
afflato diverso. Penso ai mongoli, alla cultura musulmana che in molti ambiti
si è fondata su quella persiana, e adesso agli ottomani, che invece sono
partiti dal modello bizantino. Lo stesso Sinan era cristiano (era un
giannizzero, milizia reclutata fra i non musulmani) e di formazione
cosmopolita, non certo il tipico ottomano anatolico.
Se c’è una cosa che più di ogni altra testimonia questo
sincretismo (per non dire sudditanza) culturale da parte degli ottomani è la
persino ingenua ammirazione che i sultani provavano per le ceramiche cinesi. Ecco,
di venire a Istanbul e trovare una delle più grosse collezioni al mondo di
ceramiche cinesi, è qualcosa che proprio non mi aspettavo. Alcuni pezzi sono
dei veri capolavori, con molte ceramiche Celadon (quelle in realtà perfezionate
dai coreani), molto considerate perché ritenute in grado di svelare i veleni
cambiando colore.
Stesso discorso vale per il Tesoro di palazzo, una
collezione di oggetti preziosi in esposizione permanete, quasi tutti oggetti di
lusso (gemme e diamanti in ogni dove) più che di alto valore artistico.
L’altra grande attrazione della giornata è stato il Gran
Bazar: l’antenato e al tempo stesso l’esempio più eclatante del concetto di “galleria
commerciale”. È un autentico labirinto, un dedalo di vicoli con migliaia di
negozi e una fiumana ininterrotta di gente che sciama in ogni dove. La domanda
che sorge spontanea è quale sia la forza economica che sottende a questa spropositata
vocazione al commercio. Se una volta il ruolo di Istanbul come crocevia
mercantile fra Europa e Asia era più che giustificato, ad occhio penserei che
oggi la situazione debba essere molto diversa. E allora? Sono solo i turisti a
tenere in piedi questa veneranda istituzione? Mi sembra ugualmente improbabile.
Chissà. C’è evidentemente qualcosa che mi sfugge.
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