mercoledì 14 gennaio 2015

Istanbul, giorno 4

Finalmente il Topkapi. Non che fosse quello che più attendevo, ma è stato interessante, forse per motivi imprevisti. Si tratta di un grande complesso palaziale, servito per molti secoli come palazzo dei Sultani prima che, verso la fine dell’impero, scegliessero un modello di vita - e di conseguenza dimore - più affini allo stile occidentale. È sviluppato in una serie di corti successive, con padiglioni ed edifici vari sparsi per tutta l’area. Come regola generale, più si procede verso l’interno più gli spazi si fanno privati, di esclusiva pertinenza del sovrano. Fa eccezione l’harem, disposto lateralmente più o meno a metà percorso, dove risiedevano le concubine e la potentissima regina madre, sorvegliate dagli eunuchi di palazzo. 




Fonte perpetua di mille suggestioni orientaliste, l’harem è interessante soprattutto per le decorazioni interne. È tutto ricoperto di ceramiche con gli usuali arabeschi ottomani, e alcuni ambienti sono di grande suggestione. Tuttavia, così come tutto il palazzo, è architettonicamente disorganico, e rende bene l’idea di una civiltà che, pur capace di grande raffinatezza, delegava le sue manifestazioni di potenza più che altro allo sfoggio di lusso e magnificenza. In definitiva, la cultura degli ottomani rivela le loro origini nomadi, e come già successo altrove, la dinamica fra nomadi e stanziali prevede che i primi, laddove prevalgano, assumono di fatto la cultura dei secondi, magari conferendogli un afflato diverso. Penso ai mongoli, alla cultura musulmana che in molti ambiti si è fondata su quella persiana, e adesso agli ottomani, che invece sono partiti dal modello bizantino. Lo stesso Sinan era cristiano (era un giannizzero, milizia reclutata fra i non musulmani) e di formazione cosmopolita, non certo il tipico ottomano anatolico.




Se c’è una cosa che più di ogni altra testimonia questo sincretismo (per non dire sudditanza) culturale da parte degli ottomani è la persino ingenua ammirazione che i sultani provavano per le ceramiche cinesi. Ecco, di venire a Istanbul e trovare una delle più grosse collezioni al mondo di ceramiche cinesi, è qualcosa che proprio non mi aspettavo. Alcuni pezzi sono dei veri capolavori, con molte ceramiche Celadon (quelle in realtà perfezionate dai coreani), molto considerate perché ritenute in grado di svelare i veleni cambiando colore.
Stesso discorso vale per il Tesoro di palazzo, una collezione di oggetti preziosi in esposizione permanete, quasi tutti oggetti di lusso (gemme e diamanti in ogni dove) più che di alto valore artistico.



L’altra grande attrazione della giornata è stato il Gran Bazar: l’antenato e al tempo stesso l’esempio più eclatante del concetto di “galleria commerciale”. È un autentico labirinto, un dedalo di vicoli con migliaia di negozi e una fiumana ininterrotta di gente che sciama in ogni dove. La domanda che sorge spontanea è quale sia la forza economica che sottende a questa spropositata vocazione al commercio. Se una volta il ruolo di Istanbul come crocevia mercantile fra Europa e Asia era più che giustificato, ad occhio penserei che oggi la situazione debba essere molto diversa. E allora? Sono solo i turisti a tenere in piedi questa veneranda istituzione? Mi sembra ugualmente improbabile. Chissà. C’è evidentemente qualcosa che mi sfugge.



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