martedì 2 giugno 2015

Cina, giorno 2

Affrontare il drago cinese senza partire dalla testa è impensabile. La storia della Cina è quella di un’area immensa caratterizzata da un’assoluta identità culturale, e sul versante politico e ideologico questo ha significato l’elaborazione i strumenti adatti a legittimare questa unità. L’intera storia della Cina è caratterizzata dall’ossessione ineludibile per l’impero centralizzato, versione politica della necessità, avvertita da tutti, di portare a unità questa enorme comunità culturale che si è sempre sentita il centro del mondo. Da qui le ideologie delle varie dinastie, cinesi e straniere, da qui il culto degli antenati, da qui l’efficacissima dottrina para-religiosa del “mandato celeste” e dell’imperatore come “figlio del cielo” (senza bisogno di chiarire ulteriormente cosa realmente in cielo ci fosse, lasciando così spazio a una relativa libertà in tal senso), da qui Confucio e tutto il resto. Tutto ciò in nome dell’unità della Cina, la “terra centrale”, identificata tout court con la civiltà, al di fuori della quale ci sono solo barbari. Interessante era capire a quanto di questa concezione abbiano dovuto rinunciare per entrare nell’età moderna. A molto poco, parrebbe. Basta un’occhiata superficiale al complesso composto da piazza Tienanmen e dalla Città Proibita per rendersene conto. Il faccione di Mao che campeggia sulla facciata della massima espressione del potere cinese dai Ming in avanti, la stessa piazza con la sua architettura e i suoi simboli, il mausoleo di Mao col corpo esposto e quasi divinizzato, posto per di più sullo stesso “asse sacro” riservato agli imperatori e lungo il quale è sepolto il primo imperatore Ming, sono tutte prove evidenti che testimoniano la volontà dei comunisti di ricercare una legittimazione nel segno della continuità, a parte forse il decennio di sbandamento della Rivoluzione Culturale. La stupefacente disinvoltura con cui la Cina di Deng (che non ha caso ho sentito glorificare come il miglior leader della Cina moderna) ha abbandonato l’ideologia comunista per ricavare al partito un ruolo di potere meramente “dinastico” slegato dalla teoria economica dice già tutto.




Tutto ciò per dire che la Città Proibita è ben di più di un sito archeologico, ed è evidente che di questo bisogna tener conto nella visita. È un enorme complesso palaziale strutturato secondo un asse nord-sud, con i padiglioni imperiali sull’asse centrale caratterizzati dai tetti di un bel giallo smaltato, il colore dell’imperatore, che sotto il sole risplendono a dare una vista davvero imperiale. Bello? Alcune cose sì, ma interessante e impressionante molto più che bello. L’ufficialità della funzione è preminente rispetto ai valori estetici, e a questo proposito, generalizzando molto, si può dire che se quella cinese è l’architettura dell’ufficialità, quella coreana è impregnata di un senso etico confuciano (modestia, decoro, assenza di ostentazione etc.) legata al suo ruolo di piccola potenza schiacciata fra vicini molto più forti, mentre quella giapponese si caratterizza proprio per un raffinamento del senso estetico che è tutto loro.






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