Affrontare il drago cinese senza partire dalla testa è impensabile.
La storia della Cina è quella di un’area immensa caratterizzata da un’assoluta
identità culturale, e sul versante politico e ideologico questo ha significato
l’elaborazione i strumenti adatti a legittimare questa unità. L’intera storia
della Cina è caratterizzata dall’ossessione ineludibile per l’impero
centralizzato, versione politica della necessità, avvertita da tutti, di
portare a unità questa enorme comunità culturale che si è sempre sentita il
centro del mondo. Da qui le ideologie delle varie dinastie, cinesi e straniere,
da qui il culto degli antenati, da qui l’efficacissima dottrina para-religiosa
del “mandato celeste” e dell’imperatore come “figlio del cielo” (senza bisogno
di chiarire ulteriormente cosa realmente in cielo ci fosse, lasciando così
spazio a una relativa libertà in tal senso), da qui Confucio e tutto il resto.
Tutto ciò in nome dell’unità della Cina, la “terra centrale”, identificata
tout court con la civiltà, al di fuori della quale ci sono solo barbari.
Interessante era capire a quanto di questa concezione abbiano dovuto rinunciare
per entrare nell’età moderna. A molto poco, parrebbe. Basta un’occhiata
superficiale al complesso composto da piazza Tienanmen e dalla Città Proibita
per rendersene conto. Il faccione di Mao che campeggia sulla facciata della
massima espressione del potere cinese dai Ming in avanti, la stessa piazza con
la sua architettura e i suoi simboli, il mausoleo di Mao col corpo esposto e
quasi divinizzato, posto per di più sullo stesso “asse sacro” riservato agli
imperatori e lungo il quale è sepolto il primo imperatore Ming, sono tutte
prove evidenti che testimoniano la volontà dei comunisti di ricercare una
legittimazione nel segno della continuità, a parte forse il decennio di
sbandamento della Rivoluzione Culturale. La stupefacente disinvoltura con cui
la Cina di Deng (che non ha caso ho sentito glorificare come il miglior leader
della Cina moderna) ha abbandonato l’ideologia comunista per ricavare al
partito un ruolo di potere meramente “dinastico” slegato dalla teoria economica
dice già tutto.
Tutto ciò per dire che la Città Proibita è ben di più di un
sito archeologico, ed è evidente che di questo bisogna tener conto nella
visita. È un enorme complesso palaziale strutturato secondo un asse nord-sud,
con i padiglioni imperiali sull’asse centrale caratterizzati dai tetti di un
bel giallo smaltato, il colore dell’imperatore, che sotto il sole risplendono a
dare una vista davvero imperiale. Bello? Alcune cose sì, ma interessante e
impressionante molto più che bello. L’ufficialità della funzione è preminente
rispetto ai valori estetici, e a questo proposito, generalizzando molto, si può
dire che se quella cinese è l’architettura dell’ufficialità, quella coreana è
impregnata di un senso etico confuciano (modestia, decoro, assenza di
ostentazione etc.) legata al suo ruolo di piccola potenza schiacciata fra
vicini molto più forti, mentre quella giapponese si caratterizza proprio per un
raffinamento del senso estetico che è tutto loro.
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