La prima impressione di Tel Aviv è quella di una città vitale
e molto europea. Inutile nasconderlo: storia e cronaca ci hanno inculcato l’idea
che Israele sia un luogo se non pericoloso quanto meno precario, un paese semi-militarizzato
in una condizione di guerriglia permanete. La normalità e la voglia di vivere
di Tel Aviv smentiscono inizialmente questa impressione. Basta poco però per
capire che le complessità sono dietro l’angolo. Ci sono ragazzi e ragazze in
divisa, che sembrano quasi boy scout in libera uscita quando li vedi con le
famiglie o con gli amici a fare tutte le cose tipiche della loro età, ma sai
che stanno facendo i due anni obbligatori di servizio militare. C’è la stessa
Hila, che anni addietro ha avuto un compagno di classe morto in un attentato. C’è
tutto lo spettro delle religiosità possibili, in quello che a prima vista
sembra un equilibrio quasi miracoloso. L’impressione, o forse la speranza, è di
avvertire sullo sfondo una specie di laicità, intesa come rispetto (o
indifferenza, sentimento più probabile in un contesto in cui ognuno è convinto
in cuor suo di avere ragione ma non sente la necessità di convertire gli altri)
per le identità altrui.
Impegnato a seguire Rutu per il documentario, la mia
impressione della città è tuttavia frammentaria, composta dalle tessere dei
luoghi in cui mi trovo a filmare con lei e delle persone che incontro nel corso
del lavoro. Segue dunque elenco di impressioni sconnesse:
- A Tel Aviv c’è una forte componente di popolazione giovanile, che vuole divertirsi ed esprimersi.
- Ci sono locali accoglienti e amichevoli, in cui si mangia e si beve decisamente bene.
- Ci sono innumerevoli case e palazzine in stile Bauhaus, costruite da architetti in fuga dal nazismo e giustamente considerate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO; magari non compensano l’assenza di un reale tessuto storico, ma dotano la città di una forte identità architettonica e la agganciano a un ben preciso momento culturale, in forte continuità con la tradizione europea. Dirò anzi che il Bauhaus, fredda astrazione teutonica di rigore quasi calvinista, trova nel sole e nella luce di Tel Aviv lo scenario ideale per dimostrare tutta la sua umanità, e non riuscirò più a pensarlo sconnesso dai colori del Mediterraneo.
- Tutti parlano un ottimo inglese, per cui è semplice non solo chiedere informazioni, ma anche stringere amicizie o interloquire con i simpatici locali. E manco a dirlo, i mondiali di calcio sono stati un ottimo spunto.
- L’impossibilità di leggere l’ebraico crea un velo di incomprensione su tutta la comunicazione visiva, e necessariamente cela agli occhi degli stranieri parte della complessità sottostante.
- Ci sono imponenti realizzazioni culturali, come il teatro Habima.
- Ci sono luci, colori, odori e sapori tipicamente mediterranei, e per noi italiani è facile sentirsi a casa.
- Ci sono gatti dai musi allungati, quasi egizi.
- C’è una notevole mescolanza etnica, in questo simile all’Italia, anche se si vede qualche fisionomia tipica.
- L’acqua ghiacciata con menta e limone potrebbe diventare la mia nuova bevanda preferita.
La ripresa del documentario intanto
procede, ed è difficile spiegare a chi non abbia esperienza di produzione video
quanto lavoro e fatica ci siano dietro. Il momento clou della giornata è stato
quando abbiamo filmato Rutu impegnata a dedicare i suoi libri in una fiera del
libro in piazza Rabin. E lei, che è sempre gentilissima ma di carattere
introverso e riservato, di fronte ai suoi fan si è aperta in un sorriso che le
ho visto in poche altre occasioni.
E avanti, che domani tocca a Gerusalemme.
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