venerdì 20 giugno 2014

Gerusalemme, e la mano di Dio

Arriviamo a Gerusalemme al seguito di Rutu, che il mercoledì insegna lì all'accademia di Bezalel. La mattina se ne vola dietro a lei. Il pomeriggio, mentre Rutu resta ad insegnare, ci spostiamo con Hila alla città vecchia per riprendere qualche immagine iconica. La Cupola della Roccia era chiusa per una qualche ragione, per cui ci si avvicina al Muro del Pianto. E da qui in avanti la giornata prende una piega strana. Di fronte al Muro del Pianto, proprio nel camminamento che porta ai cancelli di sicurezza, si sente un miagolio disperato. Un gattino è appeso in condizioni precarie a un sostegno sul muro di fronte, ad almeno cinque metri di altezza. Cosa ci faccia lì è un mistero, come possa uscirne senza cadere altrettanto. Tutti passano col naso all'insù senza poter far nulla, un giovane con la kippah prova ad arrampicarsi ma arriva sì e no a metà strada. Quando passo io il gattino cade. Mi atterra proprio davanti, sulle quattro zampe, ma lui è molto piccolo e il salto molto alto. Rimane fermo lì dove è caduto, e lancia forti miagolii di dolore. Lo raccolgo senza pensarci due volte, lo tengo per la collottola e lo esamino velocemente: dall'esterno non si vede nulla. Mi siedo su uno scalino lì accanto e comincio ad accarezzarlo per provare a calmarlo. Un po’ alla volta smette di miagolare e ricomincia timidamente a muovere le zampette. Sembra stia bene, e comincia a fare quelle che sembrano fusa miste a brividi. Una signora che mangiava una polpetta me ne dà un pezzo, e lui ci si avventa. Gli do da bere e lui beve avidamente. Appare chiaro che nessuno lì ne sa nulla, che senza madre e in un luogo pieno di gatti randagi come la Città Vecchia un gattino così piccolo non ha alcuna possibilità di sopravvivere. E allora lì, di fronte al luogo più sacro per l’ebraismo, con un esserino indifeso che mi è caduto davanti come dal cielo, decido che se dovrà vivere e morire da gatto, come prima o poi sarà, non sarà lì e non sarà perché io non ho fatto il possibile per aiutarlo. Lo prendo, lo metto nel mio berretto e me lo porto dietro. Se possibile, penso, compro una gabbietta e me lo porto in Italia. Mentre gli altri sono oltre i cancelli di sicurezza a fare qualche ripresa del Muro, io li attendo fuori, e il gattino diventa l’attrazione di decine di turisti e pellegrini. È un diluvio di foto, di carezze, di incitamenti. Arriva anche quella che mi sembra una benedizione. Più tardi andiamo a mangiare in un localino di hummus e io mi siedo fuori, sempre col gattino nel berretto. Hila chiede se il gatto può entrare, e il gestore sorride e mi invita dentro. Più tardi Hila mi confessa che quello per lei è stato un momento speciale, che non aveva mai parlato col gestore arabo e che quando lo ha visto sciogliersi si è emozionata. Forse potremmo fare la pace usando i gatti, mi dice. Di ritorno alla macchina un altro signore palestinese mi si avvicina e mi allunga una scatola da scarpe, che per portare un gatto è decisamente più pratica del mio berretto. E insomma rientro a Tel Aviv col gattino, che ora è qui con me. Le regole di El Al per volare con un cucciolo prevedono che possa volare solo un animale vaccinato. Ho chiamato un veterinario, che mi ha detto che è impossibile vaccinare un gatto che ha meno di tre mesi perché ha ancora in corpo gli anticorpi della madre. Stando così le cose, pare che non possa portarlo in Italia. A questo punto vi chiedo: mi aiutereste a trovare una casa a Tel Aviv per questa bestiola?


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