Arriviamo a Gerusalemme al seguito di Rutu, che il mercoledì
insegna lì all'accademia di Bezalel. La mattina se ne vola dietro a lei. Il pomeriggio,
mentre Rutu resta ad insegnare, ci spostiamo con Hila alla città vecchia per
riprendere qualche immagine iconica. La Cupola della Roccia era chiusa per una qualche
ragione, per cui ci si avvicina al Muro del Pianto. E da qui in avanti la
giornata prende una piega strana. Di fronte al Muro del Pianto, proprio nel
camminamento che porta ai cancelli di sicurezza, si sente un miagolio
disperato. Un gattino è appeso in condizioni precarie a un sostegno sul muro di
fronte, ad almeno cinque metri di altezza. Cosa ci faccia lì è un mistero, come
possa uscirne senza cadere altrettanto. Tutti passano col naso all'insù senza
poter far nulla, un giovane con la kippah prova ad arrampicarsi ma arriva sì e
no a metà strada. Quando passo io il gattino cade. Mi atterra proprio davanti,
sulle quattro zampe, ma lui è molto piccolo e il salto molto alto. Rimane fermo
lì dove è caduto, e lancia forti miagolii di dolore. Lo raccolgo senza pensarci
due volte, lo tengo per la collottola e lo esamino velocemente: dall'esterno
non si vede nulla. Mi siedo su uno scalino lì accanto e comincio ad
accarezzarlo per provare a calmarlo. Un po’ alla volta smette di miagolare e
ricomincia timidamente a muovere le zampette. Sembra stia bene, e comincia a
fare quelle che sembrano fusa miste a brividi. Una signora che mangiava una
polpetta me ne dà un pezzo, e lui ci si avventa. Gli do da bere e lui beve
avidamente. Appare chiaro che nessuno lì ne sa nulla, che senza madre e in un luogo
pieno di gatti randagi come la Città Vecchia un gattino così piccolo non ha
alcuna possibilità di sopravvivere. E allora lì, di fronte al luogo più sacro
per l’ebraismo, con un esserino indifeso che mi è caduto davanti come dal
cielo, decido che se dovrà vivere e morire da gatto, come prima o poi sarà, non
sarà lì e non sarà perché io non ho fatto il possibile per aiutarlo. Lo prendo,
lo metto nel mio berretto e me lo porto dietro. Se possibile, penso, compro una
gabbietta e me lo porto in Italia. Mentre gli altri sono oltre i cancelli di
sicurezza a fare qualche ripresa del Muro, io li attendo fuori, e il gattino diventa
l’attrazione di decine di turisti e pellegrini. È un diluvio di foto, di
carezze, di incitamenti. Arriva anche quella che mi sembra una benedizione. Più
tardi andiamo a mangiare in un localino di hummus e io mi siedo fuori, sempre
col gattino nel berretto. Hila chiede se il gatto può entrare, e il gestore
sorride e mi invita dentro. Più tardi Hila mi confessa che quello per lei è
stato un momento speciale, che non aveva mai parlato col gestore arabo e che
quando lo ha visto sciogliersi si è emozionata. Forse potremmo fare la pace usando
i gatti, mi dice. Di ritorno alla macchina un altro signore palestinese mi si
avvicina e mi allunga una scatola da scarpe, che per portare un gatto è
decisamente più pratica del mio berretto. E insomma rientro a Tel Aviv col
gattino, che ora è qui con me. Le regole di El Al per volare con un cucciolo
prevedono che possa volare solo un animale vaccinato. Ho chiamato un
veterinario, che mi ha detto che è impossibile vaccinare un gatto che ha meno
di tre mesi perché ha ancora in corpo gli anticorpi della madre. Stando così le cose, pare che non possa portarlo
in Italia. A questo punto vi chiedo: mi aiutereste a trovare una casa a Tel
Aviv per questa bestiola?
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