Partenza da Roma con gli atleti di Rio, elegantissimi nella
divisa di Armani. Nessuno famoso, mi pare, ma in fondo che ne so?
E dunque, di nuovo in Corea. Trasferta lavorativa e senza
fronzoli, ma utile per capire ancora qualcosa in più su questo popolo, che si percepisce,
ed è, una specie di anello di congiunzione fra i cinesi (rozzotti, rumorosi, pieni
di sé) e i giapponesi (complessati, omologati, cerimoniosi). Per riassumere in
una parola, i coreani sembrano, a noi europei, assolutamente normali; e questo,
considerati i vicini, è un fatto che ha quasi dell’incredibile.
Il momento top di questi pochi giorni è stato la visita alla
mostra di Nam June Paik, che qui è una specie di gloria locale. È incredibile
come con i suoi totem retro-futuristi e con la spettacolare installazione della
tartaruga di monitor riesca a toccare contemporaneamente così tanti tasti (i
nuovi media e i vecchi, lo status dell’immagine video, la condizione umana in
questi tempi ipertecnologici) in modo così classico, direi quasi apollineo. Non
c’è traccia di gratuità nelle sue opere, non c’è aggressione sensoriale, non
c’è rumore, non c’è critica o polemica, non c’è provocazione, ma solo un
messaggio limpido, una lezione di stile assoluta. Chapeau.
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