Hong
Kong mi accoglie con aspetti contrastanti. Nel viaggio dall'aeroporto all'hotel
si succedono visioni quasi incongrue: la natura subtropicale, il mare tutto
promontori e isolette, palazzoni enormi e all'apparenza disabitati che sembrano
sorgere dalla natura stessa, ponti ciclopici, giganteschi lavori di
costruzione, il porto come unico segno di una qualche vita industriale, con
migliaia di container multicolori ma stranamente con nessuna presenza umana in
vista. Tant'è che mi comincio a chiedere, sgomento come solo a New York, se
viva qualcuno in questi luoghi al tempo stesso benedetti e dimenticati da Dio.
Poi finalmente si entra nella città vera e propria e si respira tutta un'altra
aria. I palazzoni anonimi diventano i grattacieli di Hong Kong Island, stretti
fra un mare blu davanti e uno verde dietro, e proprio per questo a una prima
impressione meno arroganti di quelli di New York. Poi si entra a Kowloon, dove
ho l'hotel, e la parte popolare della città finalmente si palesa, piena di
gente, di traffico, di insegne al neon che sembrano di un'altra epoca, di
incredibili ponteggi di bambù, di strade strette e vicoletti, dimostrazione
plastica che lo spazio da queste parti è un lusso. Viene facile pensare che in
un posto così, compresso in un fazzoletto di terra stretto fra mare e natura
incontaminata, moderno e di un vecchio che sembra quasi antico, che ostenta
affiancate ricchezza e anima popolare, possa accadere di tutto, dai gangster di
John Woo alla fantascienza in stile Blade Runner. Per oggi è anche troppo, mi
limito a collassare.
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